CAPITOLO 12 •DREAD IS NEAR•

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DEMI'S POV
" Curioso come di notte la nostra mente si spegne, come ogni nostro pensiero o dubbio svanisce. Per ore sei fermo, con la mente, con l'anima ma non col corpo. Ti addormenti in una posizione ma ti risvegli in un altra, come se durante quelle ore di riposo tu sia stato sopra le montagne russe. Non sei più avvolto fra le coperte, non sei più al caldo, il cuscino posto in una strana posizione e potresti persino aver perso i calzini. La prima domanda che ti sorge è: ma che cosa ho sognato? Spesso ci chiediamo se i sogni esistono realmente, se quel mondo è effettivamente nostro o pura fantasia. Mi capitava spesso di cercare di riordinare le idee e capire se concretamente avevo sognato quella determinata cosa. Quella notte non successe, quella notta ero vittima di un incubo che si stava allargando anche nella mia realtà. Mi ero addormentata accanto a Justin, con la consapevolezza di essere al sicuro ma mi svegliai di soppiatto. Una soffiata di vento freddo entrò dalla finestra aperta della stanza, un' ora prima Justin era sdraiato di fianco a me e un'ora dopo non c'era più. Vedevo nero, avevo paura di accendere la luce e trovare qualcosa di inaspettato...come un corpo morto, ad esempio. Il buio che mi avvolgeva era la mia coperta, il soffitto cigolante il mio cuscino e la porta di quella stanza il mio risveglio. Sebbene lo volessi, non riuscivo a mettere a fuoco ciò che mi circondava, era troppo buio e soffocante. Il blu notte dipingeva la stanza e ne ero terrorizzata, cercai di muovermi il meno possibile per sembrare innocente e sapevo che ero l'unica dentro quello spazio di pochi metri quadrati. Eppure il senso di impotenza che comandava il cuore e la mente, mi stava mettendo in condizioni di provare panico e nient'altro. Mi sentivo osservata, due occhi pungenti potevano osservarmi e io ero la preda, non riuscivo a muovere un solo muscolo. Gli alberi fuori dalla finestra danzavano, una danza rumorosa e le foglie, di conseguenza, non riuscivano a stare ferme. Come se ci fosse di sottofondo una base musicale invisibile e a quel tempo di musica, le foglie e i rami dovevano muoversi o avrebbero perso. Ero protagonista di una realtà e presto sarei stata la vittima. Respirai con affanno e cercai di trovare la calma in quella situazione brutale, chi aveva aperto la finestra? Furtivamente tentai di trovare la presa della luce e non appena la toccai col dito chiusi gli occhi e accesi la luce. Aprii prima l'occhio sinistro e quando mi accorsi di essere sola, aprii il destro. Voltai la testa verso l'altra piazza del letto e no, Justin non era presente. Mi alzai e cercando di fare meno rumore possibile andai a chiudere la finestra scontrandomi col freddo notturno di ottobre. Il mio tentativo nel voler essere silenziosa cedette e nell'appoggiare il tallone al pavimento in legno, sentii un forte cigolio provenire da esso. Strinsi gli occhi sperando di farlo smettere e così fù, come fosse una magia. Mi guardai attorno, un letto, due comodini e bloccata fra quattro mura. Quella stanza mi dava un senso di inadeguatezza e forte ansia, volevo solo respirare e mandare aria ai polmoni. Presa da una strana decisione, aprii la porta della stanza e mi imbattei nel corridoio. Avevo paura. Il bagno delle donne era posto di fronte alla nostra camera ma quello degli uomini non era in quelle vicinanze. Quella notte quel corridoio sembrava infinito, privo di fine e provvisto di immensità. Nessun respiro, nessun segno di vita, nessun'anima proveniva da quella casa...niente.
- Justin...- sussurrai sperando fosse andato nel bagno delle donne data la vicinanza. Speravo fosse così ma ero ancora sola. Chiamarlo non mi avrebbe aiutata anzi, avrebbe causato soltanto problemi. M'incamminai lungo il corridoio buio tenendomi stretta ai muri, erano rivestiti da legno, un legno rustico e ruvido. Mi sarei scheggiata le mani. A passi lenti e vacillanti, vidi una luce fioca che segnava la fine del corridoio...ma l'inizio della mia. Era la cucina e mi chiedevo se Justin non fosse lì, probabilmente gli era venuto un colpo di fame. Non sapevo nemmeno che ore fossero. Potevano essere le tre del mattino come anche le cinque ma avrei visto l'alba in lontananza e non c'era. Era difficile dire che cosa mi circondava e chi, non ne ero a conoscenza. Sapevo, invece, che qualcuno era in cucina data la piccola luminosità che proveniva da essa. Mi porsi in avanti, appoggiando un occhio nella fessura della porta e cercai di osservare chi c'era dentro. Vagai con lo sguardo ma non vidi nessuno all'interno, niente che potessi definire pericoloso. E se il mio era solamente un sogno? Se non ero coscente e quella situazione era frutto della mia impavida immaginazione? Sospirai fermando volutamente il battito del mio cuore, mi sarei svegliata prima o poi. Diedi un'ultima occhiata alla cucina, magari si erano dimenticati di spegnere la luce. Feci un passo indietro intenta a tornare in camera, magari Justin era ricomparso.
- Hai bisogno di qualcosa, signorina?- mi spaventai e sospirai ad alta voce. L'anziana signora era davanti a me con una candela accesa in mano e un coltello appuntito nella mano. Sotto quella luce era ancora più terrificante ed io incapace di correre via. Sentivo che dovevo rimanere lì e una specie di colla invisibile mi teneva i piedi incollati al suolo - hai fame?-
- Perché tiene una candela?- le domandai. Una persona normale avrebbe chiesto del coltello ma io no.
- Perché non dovrei?- mi ritorse la domanda contro - cosa fai in piedi a quest'ora?- mi chiese lei stringendo il coltello.
- Perché, che ore sono?- domandai nuovamente e cercando di allungare la conversazione. Capii che quello non era un sogno, la mia mente era viva e attiva. Ogni pensiero e sensazione che provavo, stavo vivendo ed ero in attesa dell'arrivo di Justin.
- Appena le quattro del mattino- rispose avvicinando al mio viso la fiamma. Un secondo di calore mi sfiorò il naso e rabbrividì dalla paura.
- Perché lei è in piedi con una candela e un coltello?- azzardai con quella domanda.
- Sto facendo il pane, in questo modo lo avrete buono e fresco per colazione. Vieni, ti faccio vedere come si fa- disse prendendomi il polso con la sua mano vuota. A quel tocco mi gelò il cuore e non era nei miei piani entrare in cucina con lei.
- Veramente dovrei tornare in camera se non le dispiace- dissi cercando di mollare la presa ma l'anziana sembrava più forte e determinata di me.
- Giusto il tempo d'impastare- continuò tenendo più stretta la presa sul mio polso e la voglia di gridare "aiuto" era sempre più forte. Dov'era Justin?
- La prego, mi lasci andare- mi dimenai incominciando a singhiozzare ma rimaneva impassiva.
- Mia cara, mi serve una mano con l'impasto- mi afferò anche con l'altra mano e quell'oggetto di metallo, posto in prossimità del mio polso, mi fece intirizzire. Non aveva il controllo su se stessa e avevo il terrore che potesse farmi del male con quell' utensile.
- La lasci andare- sentii la voce di Justin dietro di me e ringraziai il cielo per quell'intervento. L'anziana sembrò essere spaventata da lui e mollò la presa, era stata così forte da farmi bruciare la pelle. Massaggiai la mano e indietreggiai fino a toccare Justin che mi prese un braccio. I suoi occhi, erano di un marrone intenso sotto la luce calda della candela, ed ero così grata che fosse arrivato in tempo. Il suo sguardo era fisso sull'anziana che sembrava triste ed intimorita.
- Mi d-dispiace... non volevo farle del male. Io sono sola in questa casa e facevo il pane con mio fratello quando era ancora con me. Venivamo in cucina la mattina presto per sfornare tanti panini da vendere alle persone che venivano a farci visita. Sono mortificata- disse tra un soghiozzo e l'altro. Justin allentò la tensione che aveva in corpo e sembrava capire l'anziana, mandò giù la saliva rimasta bloccata in gola e si voltò verso di me. Mi faceva pena, questo si, ma mi aveva costretta a fare qualcosa che non volevo fare e in quella situazione non volevo scusare nessuno. Tirai per un braccio Justin, ancora impanicata per l'accaduto e acconsentì lasciando l'anziana entrare in cucina.
Una volta entranti in camera afferrai la borsa che tenevo sotto il letto e Justin mi guardò stranita.
- Che stai facendo? Non partiremo prima delle sette- mi disse avvicinandosi a me.
- Oh si che lo faremo. Prima usciamo da questa casa degli orrori, meglio è- dissi - dove sei stato?-
- Ero in bagno, non hanno scelto un ottima posizione per quello maschile- continuò a parlare - senti, puoi calmarti?-
- Calmarmi? Quella signora stava per accoltellarmi un polso se solo avesse fatto un'altra mossa con le mani per cercare di farmi entrare in quella cucina- dissi frenetica.
- Abbiamo capito del perché è stata così impulsiva, ora possiamo tornare a dormire e partire fra qualche ora?-
- Neanche per sogno. Stranamente stai incominciando a capire proprio tutti, vero? Capisci tutti tranne me, io non voglio stare un minuto di più dentro questa casa perciò se non ti dispiace, voglio partire, adesso-dettai con tono che non ammetteva contraddizioni. Justin sembrò arrendersi e prese la pistola rimasta sotto il cuscino. Nella speranza di uscire viva da quel posto, aprii di scatto la porta della camera e mi fiondai all'esterno. Justin mi seguì a ruota, il suo volto era privo di emozioni e sembrava la persona più calma del pianeta. Mi chiedevo come poteva mostrarsi così passivo davanti ad una situazione del genere. Eravamo nella casa di una pazza che avrebbe fatto di tutto pur di farci rimanere dentro. A passo svelto e deciso percorsi il lungo corridoio fino ad arrivare alla fine, la luce della cucina era ancora accesa e un leggero odore di pane fresco mi entrò nelle narici.
- Abbiamo un problema...- mi chiamò Justin tentando di aprire più volte la maniglia della porta d'ingresso, la quale, sembrava voler rimanere bloccata. Un vortice di paura e terrore mi avvolse l'anima e mi ritrovai l'anziana davanti a me.
- Non andate via adesso, il pane è quasi pronto. Dieci minuti e vi lascerò andare, vi prego- cominciò a dire fissandomi tristemente negli occhi. Era evidente il bisogno di affetto ma era chiaro, perfino, il bisogno di aiuto per lei e le sue condizioni emotive. C'era qualcosa, in quella donna, che mi preoccupava parecchio: non era cattiva ma le sue intenzioni lo erano.
- Ci dispiace ma abbiamo un viaggio da fare, apra la porta- dissi allontanandomi da lei.
- Non aprirò la porta per vedervi andare via, come ha fatto mio fratello- disse. Il ricordo di suo fratello era più vivo di quanto pensassi ma non poteva prenderci e segregarci dentro quella casa. Gli occhi della donna erano lucidi, piccole lacrime le rigavano le guance e la situazione mi stava scappando di mano. Guardai Justin che cercava, inutilmente, di aprire la porta e poi venne verso di noi.
- Rimaniamo solo per assaggiare il pane, poi ce ne andiamo- disse Justin convinto e lo guardai esterefatta - può tornare dentro e sfornare il pane, veniamo tra cinque minuti- concluse e il viso dell'anziana s'illuminò di gioia.
- Oh ragazzo, mi rendi così felice- disse lei tornando in cucina. Justin afferrò il mio braccio e mi portò nuovamente in camera chiudendosi la porta alle spalle.
- Sei completamente pazzo, Justin?- gli urlai contro ma sembrò non volermi dare ascolto. Tirò fuori dalla tasca il suo cellulare e digitò qualcosa.
- Dammi il nome di questo posto, come si chiama?- mi chiese e rimasi confusa, in una situazione di disordine pazzesco ma non diedi retta al mio stato d'animo.
- Woodcutter Inn, se non sbaglio- confermai e Justin aspettò qualche istante prima di parlare.
- Come pensavo. Cinque anni fa c'è stato un incendio proprio da queste parti e, se non erra l'articolo, il proprietario, fratello della donna, è rimasto vittima dell'incendio. Dice che è morto sul colpo e le indagini sono ancora in corso, non si sa chi abbia appiccato il fuoco quella notte...- disse e rimasi a bocca aperta. Il trauma, per quella donna, doveva essere stato piuttosto forte da esserle rimasto in testa, causando danni al cervello - aspetta, non è finita. La polizia pensa che l'anziana sia una specie di complice dell'accaduto...-lo interruppi.
- Come può essere complice e uccidere il proprio fratello? Non è assurdo?- domandai.
- No se soffre di disturbi psichiatrici...qua dice che è affetta dalla psicosi schizofrenica. Dalla morte del fratello nessuno viene più a fare visita o soggiornare qua dentro e questo da quattro anni- concluse rimettendo il telefono in tasca.
- Dobbiamo andarcene, ne sei convinto ora?- chiesi e Justin annuì. Mi ricordai della finestra, era proprio posta davanti a noi e non ce ne eravamo accorti - se riusciamo a scavalcare, siamo liberi- dissi io indicando la finestra. Justin annuì e posizionò un comodino di fronte ad essa, mi fece segno di andare da lui. Salii sopra il mobile dandomi una spinta dal basso e guardando fuori mi resi conto che non era fin troppo alto, me la sarei cavata con una caviglia slogata. Mandai giù la saliva rimasta in gola e Justin appoggiò una mano sul mio fianco.
- Vuoi che vada io per primo? Ti facilito l'atterraggio- mi disse e acconsentii, scendendo dal mobiletto e lasciando salire Justin. Mi voltai verso la porta sperando che la donna fosse ancora impegnata col pane. Justin in poco tempo si lanciò in avanti e mi portai una mano alla bocca, ero sicura di aver sentito un "ahià" provenire dalla sua bocca. Buttai le valigia al di là della finestra e salì sul mobile, Justin era pronto a prendermi. Chiusi gli occhi e strinsi i denti, ero pronta per lanciarmi fra le sue braccia. Quello sarebbe stato un gesto di fiducia, sapevo molto bene che mi avrebbe presa.
Uno, due e tre...mi lanciai. Sentii le sue caldi mani avvolgermi la vita e cadere all'indietro. Una volta sopra di lui, gli sorrisi e Justin mi spostò i capelli dal viso.
- Mi hai presa- dissi con voce soffocata.
- Sorpresa?- domandò Justin con tono provocante - forza, prima che se ne accorga- concluse. Mi tirai su e afferrai la mano di Justin. Di corsa, ci avvicinammo alla macchina e senza esitazioni, accese il motore e lasciammo quella locanda. Tirai un sospiro di sollievo perché l'avevamo scampata, con qualche difficoltà, ma ce l'avevamo fatta.
- Primo ostacolo, superato!- dissi felice di essere salva.
- Credimi, ce ne saranno tanti altri ma è giusto scaldarsi così- mi rispose sfoggiando uno dei suoi soliti sorrisi - mi sembra di tornare a... niente, lascia stare- eliminò quella frase dalla sua testa e continuò a guidare. Abbozzai ad una risata sapendo dove voleva andare a parare.
- E' inutile che fugga dalla realtà. Stiamo facendo ciò che non volevamo fare, un'altro viaggio. Inizia l'avventura, Justin-mi arresi e mi convinsi che sarei dovuta stare attenta e pronta a tutto.
- Quindi mi stai dicendo che sei pronta a rischiare?- mi domandò Justin voltandosi verso di me.
- Sono appena scappata da una pazza, mi sono lanciata da una finestra...questo basta a fartelo capire?-
- Ti prometto che finirà presto-
- No Justin, non promettermi niente...piuttosto dimmi la verità, non finirà tanto presto, giusto?- il suo sguardò si rabbuiò e quella fu la risposta che aspettavo.
- Allaccia la cintura- tergiversò e feci come mi aveva detto. Sapevo perfettamente a cosa stavo andando in contro ma come il lancio dalla finestra, sapevo che Justin mi avrebbe presa in qualunque situazione. Avremmo affrontato il pericolo, ci saremmo imbattuti in scontri più pericolosi, fatali e non mi avrebbe persa...mi avrebbe presa. Mi rilassai accendendo la radio, avevo bisogno di svago in quel lungo viaggio e un po' di musica era il giusto divertimento per noi. La conclusione presa, dopo quella lunga nottata, era che non avrei messo più piede in una locanda...mai più. L'incubo era ancora così vivo che, guardando i miei polsi, vedevo quel coltello aprirmi le cicatrici ormai chiuse e sigillate. No, non erano questi i pensieri che dovevano intasarmi il cervello, non nuovamente."
JUSTIN'S POV
" Ero piuttosto stanco, affamato e disidratato. Non avevamo passato una bella nottata e in generale, nemmeno una buona giornata. Tra la discussione iniziale, il panico dentro quella casa, mi resi conto di non aver passato del tempo utile con April. Era come se non ci fosse un momento per noi, neanche un solo minuto. Passavamo la maggior parte del tempo in macchina e il restante dovevamo fuggire e metterci in salvo. Era la mia ragazza e non facevo niente per farla sentire speciale ed era arrivato il momento di farlo.
Non erano arrivate ancora chiamate anonime perciò non mi preoccupai, magari era un giorno di tregua o ci stavano dando la possibilità di allontanarci il più possibile. Semplicemente, stavano mettendo in atto un piano e io non l'avevo ancora...le supposizioni su chi potesse esserci dietro a tutto questo, erano vane e impercettibili. Più ci pensavo e più mi bruciava il cervello, non ne avevo un'idea e l'unico che poteva avercela ancora con me era Jason. Scacciai all'istante quel pensiero, pensai fosse impossibile che ancora pensasse a me.
Era, oramai, mezzogiorno e avevo bisogno di fare una lunga pausa per riempire lo stomaco e placare il senso di nausea. Eravamo ancora lontani da Fulton, nel Kentucky e non avrei retto un viaggio senza almeno una sosta. Mi preoccupava il fatto di essere praticamente senza soldi, non avevo niente da vendere e l'unica soluzione pareva quella di rubare. Sarebbe stato un giochetto, di quelli facili e veloci, non avrei avuto problemi o rimorsi. Si trattava di rimettere in pratica ciò che avevo già fatto e ritornare al mio vecchio stile di vita, sarebbe stato semplice. Era come andare in bicicletta: una volta imparato, difficilmente te ne dimentichi e io non avevo rimosso niente...mi serviva il giusto allenamento giornaliero e avrei riconquistato il mio potere. Ero più forte, più muscoloso e più agile. L'intelligenza di April avrebbe fatto un lavoro in più, anche solo in due avremmo vinto quella lotta che sembrava essere già iniziata e avremmo conquistato la bandiera della vittoria, una volta visto il traguardo.
Paura? Non c'era. Calma? Neanche quella. Voglia di vincere? Troppa.
Sentivo il leggero cambiamento del tempo, più avanzavamo verso nord, più l'autunno era rigido. Mi focalizzai sul tragitto e, a qualche metro distante da noi, un cartello segnava la presenza di un fast food.
Svoltai duecento metri più avanti, April si guardò intorno per essere sicura di essere nel posto giusto e fortunatamente la presenza di tante macchine e il caos fuori da quel luogo, la misero a suo agio. Bloccai la serratura dell'auto e m'incammai verso l'entrata. Ci appartammo in un angolino, avrei dovuto escogitare un piano per uscire di lì e non pagare il pranzo. Pochi istanti dopo ci raggiunse una cameriera, giovane d'età e vestiva con un abitino rosso e l'etichetta del fast food sul petto. Mi sorrise e prese le ordinazioni: due hamburger farciti e due lattine di coca-cola, il nostro solito.
- Dovrei chiamare mia madre- attirò la mia attenzione April.
- Per dirle che sono vivo? Sai che Mark andrà su tutte le furie e verrà a prenderti, non possiamo avere due problemi in uno- le risposi sapendo di avere ragione e acconsentì.
- Ma non posso non farmi viva per giorni, sarà la prima a preoccuparsi e si farà domande-
- Facciamo che ora non ci pensiamo e quando ti chiamerà, reciterai qualcosa sul momento- ammisi convinto che il mio piano aveva un fondo di verità.
- Sai, mia madre ha il potere di riconoscere quando mento o no...- disse, probabilmente viaggiando fra i suoi pensieri e segreti, di cui non ero ancora a conoscenza - piuttosto, non ti ha ancora chiamato nessuno?-
- Per ora nessuna chiamata ma non riesco nemmeno a rintracciare il numero, è privato e potrebbe muoversi sempre- dissi sconfitto. Interrompemmo la nostra conversazione con l'arrivo del pranzo e vidi April in forte difficoltà. Dava piccoli morsi, masticava lentamente e osservava il panino come se fosse pericoloso. Sapevo dei suoi stupidi problemi col cibo e le sue continue paranoie ma non pensavo sarebbero durate così a lungo.
- Sai che con me non devi avere problemi, mi piaci così come sei- incominciai tentando di formulare un giusto discorso.
- Umh? A cosa ti riferisci?- domandò perplessa posando il panino sul piatto.
- A quel panino, ti crea problemi mangiarlo?-
- No, come vedi lo sto facendo- ribadì stringendolo con due mani.
- Sembra che tu lo voglia uccidere...- conclusi e non rispose. Sospirò e tornò a mangiare.
- Comunque grazie- disse in un filo di voce.
- Per cosa?-
- La prima frase che hai detto, sei stato...gentile- arrossì ed abbassò lo sguardo sul suo panino, ormai finito. Sorrisi e contento per averle fatto mangiare, finii in un sorso la coca-cola.
- In modo veloce e furtivo dobbiamo uscire da quì- dissi guardando April che scrutò con decisione ogni particolare intorno a lei e, fortunatamente, il locale era abbastanza pieno.
- Di certo non ti scoperai la cameriera- mi disse puntandomi il dito contro. Rimasi in silenzio e ci fu un attimo di panico da parte sua - non dirmi che è quello che vuoi fare?-
- Solo un bacio, sul collo...o magari sul seno- risi alla sua reazione e cercai di farla ragionare - non è un tradimento-
- Tecnicamente lo è quindi, se non vuoi che chiami mia madre, trova un modo alternativo del tuo " mi scopo in cinque minuti la cameriera"- disse tra virgolette e non riuscii a trattenere una forte risata. Mi piaceva il suo essere gelosa, rendeva la situazione più comica che mai. Non sarei riuscito a fare sesso con quella cameriera, ero così preso da April che fissare il corpo di un'altra ragazza, sarebbe stato noioso. Guardai avanti a me, notando il modo di camminare indaffarato di ogni cameriere, probabilmente non ci avrebbero visti uscire e nascondendoci fra la folla che entrava, l'avremmo scampata. Avevo il piano.
- Ok, ascoltami. Esco prima io, il tempo di fumarmi una sigaretta e far vedere che al tavolo sei rimasta tu. Dammi il tempo di accenderla, fammi fare due o tre tiri e poi, non appena ci sarà della gente all'entrata, mischiati con loro ed esci tranquilla- le dissi a bassa voce sperando avesse colto il piano.
- E una volta uscita?- domandò.
- Corri verso l'auto, io sarò dentro. Devo ribadirti qualcosa?-
- E' tutto chiaro, non sono più una dilettante- disse. Mi allungai per stamparle un bacio a fior di labbra e mi alzai. Diedi un'ultima occhiata ai presenti ed era tutto stabile: persone che mangiavano, che urlavano e camerieri alle prese con vassoi e prenotazioni. Fissai April che annuì e tirai fuori dalla tasca dei jeans una sigaretta. Mi diressi verso l' uscita, disinvolto e completamente sereno, non dovevo suscitare alcun sospetto e una volta fuori guardai attraverso la vetrata. Portai la sigaretta alla bocca e l'accesi, vedevo attraverso il vetro trasparente April alzarsi a testa alta, fissò dritto verso di me.
Primo tiro e accostò la sedia. Secondo tiro, si concentrò sulla porta d'uscita e un gruppo di persone avanzava verso l'entrata. M'incamminai verso l'auto non appena vidi April spingersi verso l'uscita. Durante quei secondi, dove non avevo nessun controllo su di lei, incominciai a sentire l'ansia penetrare nel corpo. Accesi l'auto e quei secondi sembravano intensi minuti ma poi la vidi, sospirai nel vederla correre verso di me ed entrare, poi, nell'auto. Partii alla velocità del suono e, sgommando sul terreno ghiaioso, tornai sulla strada asfaltata e superando il limite di velocità stabilito, avanzai verso la prossima meta. Una volta sicuro che eravamo usciti indenni dal pericolo, respirai aria pulita e voltai il mio sguardo verso April che sicuramente si sentiva soddisfatta del suo lavoro.
- Beh? Non dici niente?- le domandai, il suo silenzio non mi era mai piaciuto.
- Fammi riprendere, ti prego. Ho avuto la costante sensazione di essere seguita per quel piccolo tragitto dal locale alla tua auto. Siamo una squadra ormai- battè le mani e mi sorrise - prossima tappa?-
- Hai mai sentito parlare del Kentucky Lake?- le domandai e sembrò non aver mai sentito quel nome - ti va di andare li e restare per la notte?-
- Farà freddo, non credi?-
- Dormiremo in macchina e saremo così stretti che non sentirai freddo- le feci l'occhiolino.
- Ci sto ma anche per un'altro motivo...- lasciò la frase in sospeso e restò ferma sul mio viso per qualche istante - domani è il mio compleanno- rimasi colpito e sorpreso perché non ne avevo idea. A dire la verità, quando mai le avevo chiesto del suo compleanno? Diciannove anni, un anno più giovane di me ma sarebbe stato un anno da ricordare.
- Aspettati l'inaspettato- le dissi accellerando.
- Che vuoi dire?- mi domandò curiosa e leggermente spaventata, d'altronde, cosa poteva aspettarsi da me?
- Non preoccuparti, ho in mente qualcosa- la rassicurai, riuscendoci poco ma sapevo quello che volevo fare e non era pericoloso - un indizio, ricorderai i tuoi diciannove anni- conclusi restando in silezio e lei pure. Ero già emozionato perché le avrei fatto passare una serata a dir poco magica, una serata inaspettata e focosa. Le avrei fatto sentire tutto il mio calore, avrei messo a nudo parti di me e avrei fatto il criminale...sapevo quello che volevo fare per lei. Niente regali o cose del genere ma tutt'altro. La mia intenzione era quella di farla rimanere stupita e ci sarei riuscito, questo per farle capire che l'amavo per davvero, tornando al discorso dell'altra notte in camera dove aveva messo in dubbio i nostri sentimenti. Il suo compleanno sarebbe stato una verità, la verità di come io esprimevo i miei sentimenti e di come li comandavo. Doveva imparare a guardarmi negli occhi e a vederci la passione, la cattiveria e l'amore. Pensai al mio compleanno e a tutti quelli passati, non avevo mai ricevuto niente, pochi regali e zero affetto. Ricevevo solo il " buon compleanno, figliolo" da parte di mio padre perché non poteva permettersi di comprarmi qualcosa di utile, teneva il suo egoismo così in alto da farmi imbestialire. Il giorno del mio compleanno era il giusto giorno per combinare cazzate, era il rituale per fare danno con i miei vecchi amici: sbronze che duravano ore, canne, fumo e droga...tutto questo perché nessuno mi dava mai niente e per ripicca facevo del male a me stesso. Il compleanno di April sarebbe stato anche il regalo per me stesso, una giornata di puro rilassamento e godimento. Centrai lo sguardo sulla strada e respirai a fondo, dilatando il diaframma e rilassando il corpo, ero sicuro al cento per cento di amarla ma troppo insicuro per dirglielo."

HAZARDOUS.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora