CAPITOLO 5.

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JUSTIN'S POV

" La suoneria del cellulare provocò un rumore così rimbombante che mi svegliai quasi come se avessi appena fatto un incubo. Aprii furtivamente gli occhi cercando di mettere a fuoco il più possibile, raffigurando ogni oggetto posto davanti alla mia vista. I respiri sostenuti di Jake non mi disturbavano affatto, mi chiedevo solo come lui non avesse sentito la sveglia. Mi strofinai le palpebre e sospirai non appena guardai fuori dalla finestra. Il cielo non prometteva bene anzi, le nuvole sembravano giocarsela col sole ed erano in testa, pronte a rilasciare un forte acquazzone. Mi alzai dal letto nonostante la voglia di tornare a dormire ma avevo degli scatoloni da sistemare e più in fretta facevo, più stavo lontano da April e da ogni suo ricordo. Aprii la finestra cercando di non fare troppo rumore, quella stanza aveva bisogno di aria pulita e la mattina avevo bisogno di sentire la freschezza di quell'atmosfera. Era calda e come ogni giorno incominciavo a stancarmi di come le stagioni ad Atlanta fossero troppo diverse dal Canada. Volevo il freddo, volevo uscire di casa col cappotto, dormire col piumone e vedere la pioggia scendere così forte come se volesse farti del male. Jake dormiva beatamente sotto le lenzuola bianche, teneva la bocca semi aperta e respirava da essa, strano. Condividevamo la stessa stanza e lo stesso appartamento, d'altronde lui mi aveva offerto questo cazzo di lavoro inutile ma in qualche modo dovevo campare. Non sarei tornato in Canada, credevo di essere ancora una specie di ricercato e volevo chiudere con quella vita ma non con la mia. Ero consapevole dei casini fatti, degli errori ma qualcosa mi diceva che io ero ancora questo e lo sarei stato fino alla fine dei miei giorni. L'orologio segnava le sette e mezzo del mattino, mi piaceva svegliarmi prima rispetto a tutti gli altri, volevo essere il primo ad uscire di casa e l'ultimo a rientrare. Presi dall'armadio i miei soliti jeans, una maglietta bianca, una felpa non troppo pesante e mi chiusi in bagno per prepararmi.
Mi guardai allo specchio, la cicatrice sulla guancia sotto quella luce si vedeva a malapena ma ricordavo che April ne era leggermente ossessionata. Fissai il braccio sinistro ricoperto di tatuaggi, dalla tigre al guerriero inciso. Mi pentivo tutt'oggi per essermi tatuato tutti quei tatuaggi in così poco tempo, non ne andavo più fiero ma dalla mia presunta scomparsa era come se non volessi più esistere. Avevo fatto cazzate, mi ero ubriacato così tanto da volermi fare tatuaggi che non c'entravano nulla con la mia vita. Che cosa stava a significare la tigre? Niente. Che motivo avevo per volerla incidere su di me? Nessuno. E il guerriero? Io non ero affatto un guerriero, io ero un criminale. Io non combattevo per la pace, io uccidevo per vendetta.
Potevo definire veri solamente due tatuaggi: l'occhio situato nel braccio rappresentava mia madre. Non la vedevo da anni e quello era il suo ritratto su di me, quel tatuaggio era il suo ricordo. L'azzurro ghiaccio che si sprigionava da essi ogni volta che mi urlava contro perché era troppo ubricata e io ero il mezzo con cui se la prendeva. L'azzurro potente di tutte le volte che per cena mi cucinava la pizza ed era sobria, non erano tante ma io le ricordavo tutte. L'azzurro infinito di quando mi ripeteva che io dovevo essere un ragazzo migliore, smettere di spacciare e inziare a studiare. Quelle parole vivevano ancora dentro di me e il ricordo di mia madre era ancora troppo fresco per essere demolito. Il suo occhio sul mio braccio stava a significare che entrambi eravamo vivi sebbene non sapevo se lei lo era ancora.
Ed infine la rosa, la rosa nera che avrei voluto colorare di rosso rappresentava l'amore e sfortunatamente c'entrava qualcosa con April. Non ricordavo di essermi fatto quel tatuaggio, puntualmente le mattine mi svegliavo e mi ritrovavo con un segno cicatrizzato nuovo. Avevo inciso, esattamente affianco all'occhio, una rosa nera sfumata e la sua rappresentazione era vaga. Rappresentava, per l'appunto, l'amore e ogni volta che mi ci soffermavo sopra vedevo lei, April. Quel tatuaggio poteva avere un significato e lo detestavo proprio per questo. Se fosse stato possibile l'avrei rimosso, cancellato con una gomma perché ciò che volevo era dimenticarmi di April, lei lo aveva fatto.
Aprii il rubinetto e con le mani mi rinfrescai la faccia e ravvivai i capelli con un piccolo tocco di gel sulle punte. In due minuti mi vestii e tornai in camera dove, da poco, Jake si era svegliato.
- Sei già pronto?- mi chiese sbadigliando - che ore sono?- continuò a domandarmi.
- Precisamente le sette e cinquanta- dissi controllando l'ora sul display del mio cellulare.
- Come mai esci così presto stamattina?- mi domandò come se fosse mia madre.
- Non vorrei incontrarmi April per strada, tutto qui- risposi atono spostando la mia attenzione sul cellulare di Jake che iniziò a vibrare - non rispondi?- non esitai a chiedere.
- E' mio padre, lo richiamo più tardi- rispose spegnendo la chiamata.
- Sai come la penso su Garret quindi non me lo nominare neanche- dissi quasi arrabbiato.
- Le chiavi del bar sono sul comò, ci vediamo fra una mezzora circa- rispose affondando la testa sul cuscino. Prima di prendere le chiavi del bar, scrissi qualcosa su un bigliettino bianco e riposi la penna sul tavolino. Uscii dall'appartemento e m'incamminai a piedi per quel vialetto, quella mattina avevo voglia di camminare, di solito raggiungevo il bar con il mio skate ma quel giorno era diverso. Non avevo preso con me l'ombrello e la felpa che indossavo non aveva il cappuccio. 
Io ero l'anonimo che aveva lasciato quel bigliettino sotto l'uscio della porta nell'appartamento di April e lo stavo per fare di nuovo. Se pur non sapeva della mia presenza volevo continuare a proteggerla da lontano perché io sapevo che c'era qualcuno pronto a farle del male e questo qualcuno agiva peggio di me. Ormai sapevo il numero della sua porta, conoscevo qualsiasi suo spostamento e questo mi portava a pensarla ogni giorno, io volevo solamente dimenticarla. Non appena fui davanti a casa sua, presi dalla tasca dei jeans il bigliettino bianco e glielo lasciai nel solito punto di sempre. Guardai in alto e la finestra era ancora chiusa, segno che non era ancora sveglia. A passo svelto mi diressi verso il bar senza pensare al mio gesto, April era quel tipo di ragazza che andava tenuta protetta e se l'avevo fatto un anno fa, avrei dovuto farlo ancora. Forse non l'avrei dimenticata ma avrei ignoranto il mio amore per lei e non volevo altro che questo. Ricordavo ogni suo particolare a partire dalle cicactrici sui polsi per poi finire nella sua completa timidezza. Si vergognava quando le persone la guardavano per più di cinque secondi ed era subito pronta a portarsi i lunghi capelli davanti al viso. Era insicura ma a volte faceva fuoriuscire la sua piccola trasgressione. Voleva far vedere a tutti che lei era presente, che lei c'era. Amava sentirsi accettata e amava quando io mi prendevo cura di lei. Non nascondeva i suoi sentimenti, quello ero io. Non si sentiva tranquilla se le notti non c'ero io affianco a lei. Non si sentiva se stessa se non aveva i dolori alla pancia. Presi dalla tasca dei jeans una sigaretta e la portai alla bocca, tutti questi dannati ricordi mi portavano al viaggio di un anno fa. Ero un ragazzino piuttosto ingenuo che pensava di essere in un videogioco dalla durata infinita ma come tutto, anche quel videogioco aveva avuto una fine. Durante quelle tappe ero anche riuscito a percepire il vero me e grazie ad April ero riuscito a cambiare il mio pensiero riguardo a molte persone. L'avevo amata con tutto me stesso, avevo finalmente amato una persona vera e non la solita puttana che amava fare sesso. Quell'addio, dato nei pressi di Hinton, era stato per me un forte colpo al cuore. Non solo ero riuscito a vedere la mia vita finire ma stavo dicendo addio alla persona che più aveva bisogno di me. Ricordavo di essere ferito, Mark era riuscito a colpire la gamba ferita e il bruciore che sentivo era così vivo che lo percepivo ancora. Ero come una macchina fotografica che non metteva a fuoco le immagini, vedevo il volto di April sempre più sfocato e cupo. I suoi occhi marroni piangevano e le sue mani erano sulle mie guance, mi aveva detto ti amo e quelle due parole erano così sincere ma allo stesso tempo tristi. Ero convinto di morire perché perdevo fin troppo sangue ma come avevano detto i medici giorni dopo, ero stato miracolato.

HAZARDOUS.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora