CAPITOLO 16 • GOOD PEOPLE, BAD THINGS•

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APRIL'S POV
"Per le strade di St. Louis non c'era traffico intenso, ma trovare parcheggio era come cercare un ago in un pagliaio: difficile.
Data la poca pazienza di Justin speravo non si agitasse perché, non solo era ora di cena ma, entrambi stavamo morendo di fame. Provavo ad essere d'aiuto, scrutando ogni spazio vuoto, ogni strada secondaria, ogni angolo e poi eccola, un'auto blu in retromarcia pronta a lasciarci il posto. Justin accellerò notevolmente e con poche manovre si sistemò di fianco ad altre due macchine stando attendo, però, a non toccare gli specchietti retrovisori. Tirai un sospiro di sollievo.
- Fame?- mi chiese prendendomi la mano.
- Abbastanza. Dove andiamo?- domandai notevolmente curiosa poiché Justin sembrava perfettamente a conoscenza di quella cittadina e camminava consapevole della meta.
- Bene perché siamo vicini, per fortuna-
- Vicini a cosa?-
- Non avevi fame? Andiamo a mangiare- concluse continuando a camminare e io lo seguii, stando al suo fianco. Il cellulare mi vibrava in tasca, la batteria stava morendo e come avrei fatto a caricarlo...non lo sapevo.
Ci stavamo avvicinando al centro della città e le persone sembravano in festa. Schiamazzi da ogni parte, la musica ti entrava dentro le orecchie e contemporanemente non potevi non essere contento. La musica, le persone vivaci mettevano allegria.
Camminavo a testa alta, sia per godermi quella nuova città, sia perché non provavo più vergogna e gli sguardi degli altri non mi toccavano; finché Justin era al mio fianco, ero al sicuro.
Justin rallentò il passo e dopo pochi istanti si fermò davanti ad una scalinata con al centro un tappeto rosso, ci trovavamo di fronte ad un hotel di lusso.
- Ma un fast food non è più economico?- domandai ironica.
- April, ascoltami bene...ora noi entreremo dalla porta principale, tienimi la mano e seguimi. Se qualcuno dovesse guardarti, sorridi- disse fissandomi negli occhi e cercando la mia approvazione che non c'era.
- Credo di non aver capito bene, cosa stiamo cercando di fare?- incominciavano a tremarmi le gambe.
- All'ultimo piano c'è una suite con una piccola piscina - in terrazzo - compresa di idromassaggio. Mi farò portare la cena in camera, i camerieri non sanno chi ha prenotato la stanza pertanto non si accorgeranno di nulla- finì.
- E se chi alloggia nella suit è dentro?- incrociai le braccia, potevo non avere torto.
- Avanti, sono le nove di sera e in città c'è festa e fa caldo, secondo te i ricconi che hanno preso la suite sono in camera sotto le coperte a dormire?-
- Beh, si?- domandai come se la risposta fosse ovvia.
- Ok, in quel caso chiederemo scusa e diremo di aver sbagliato stanza- concluse prendendomi per un fianco trascinandomi avanti. Contai tutti gli scalini per ammazzare l'ansia ma come aveva detto Justin, dovevo tenergli la mano e seguirlo. E così feci.
La hall pareva magica, le pareti di un intonaco color mogano e ai soffitti, lampadari che emanevano una forte luce così intensa che sembrava di essere in una reggia. I direttori alla reception portavano un completo color corallo e la cravatta nera. Il loro portamento era da signori e sorridevano, come se quel movimento facciale fosse la sola cosa che sapevano fare. C'era agitazione perciò nessuno si accorgeva di noi, vestiti come se fossimo sbucati da una fogna ma poco importava perché Justin sembrava di casa, camminava sicuro di sè. Chiamò l'ascensore e attendemmo, io con ansia, che arrivasse al piano.
- Come fai a sapere dov'è la stanza?- chiesi a bassa voce, forse non avrei dovuto perché mi guardò portando l'indice sulla mia bocca. Non appena sentimmo il BIP dell'ascensore e le porte si aprirono, ci imbucammo al suo interno e tirai un sospiro di sollievo, come se avessimo superato la prima prova. Presi la mano di Justin e la strinsi, mi faceva sentire più tranquilla.
- Le suite si trovano comunemente all'ultimo piano. Vieni!- disse, passando per primo ed estraendo dal portafoglio una specie di carta di credito.
- E quella?- domandai.
- Ne tengo sempre una dentro al portafoglio, aiuta ad aprire qualsiasi cosa- rise soddisfatto e a passi veloci arrivammo davanti ad una porta, anche questa color mogano e Justin appoggiò delicatamente la tessera sulla porta, la strisciò lungo un apposito sensore che diede come risposta una luce rossa.
Mi voltai indietro sperando che nessuno potesse vederci o comunque passare anche solo di lì, di certo non avevamo l'aria di possedere soldi e tanto meno di poterci permettere quella stanza.
Justin strofinò la tessera più volte sulla sua maglietta come per dare attrito e riprovò, questa volta con più forza. La luce da rossa divenne verde e la porta fece un piccolo scatto in avanti. Eravamo dentro.
L'interno era meglio della hall, sembrava di essere dentro una favola o addirittura dentro un film. Poteva benissimo essere la stanza di Grace Kelly o della regina d'Inghilterra. Il letto a due piazze rialzato e circondato da lunghe tende color panna contornate ai bordi da pizzo ricamato. Il pavimento ricoperto da un tappeto quasi di velluto morbido. La stanza emaneva un profumo dolce di vaniglia e rosa, una meraviglia. Di fronte a noi, una finestra alta quanto un palazzo, con la vista sul fiume Missouri. Da quassù si potevano vedere le luci della città, tante grandi e luminose luci che illuminavano ogni parte di St. Louis. La finestra che si apriva in una terrazza era enorme, tanto grande da possedere una piscina tonda e anch'essa brillava di due luci, viola e blu. Per un momento mi ero dimenticata che quella stanza non era nostra, che non avremmo mai potuto permetterci un sogno così grande e per questo, tale sarebbe rimasto.
Justin mi abbracciò da dietro, lo amavo ma allo stesso tempo ero molto preoccupata per la sua salute. Avremmo dovuto trovare un momento per portarlo in ospedale e sarei stata al suo fianco, avrei affrontato con lui la sua paura per gli ospedali. Lui mi era sempre rimasto accanto nei momenti in cui ero stata terrorizzata da qualcosa e io avrei fatto la stessa cosa.
- Buon compleanno, piccola- disse baciandomi dolcemente la guancia e poi il collo. Era vero, era il mio compleanno e quello era il suo regalo.
- Ti amo, Justin- dissi convinta. Lo amavo veramente, lo amavo così tanto che lo perdonai per tutti i segreti tenuti nascosti. Lo amavo, sapevo solo questo e amare una persona era tanto difficile quanto spaventoso. Non era facile, dare tutta me stessa ad una persona così chiusa e, alle volte, pericolosa.
Sentii il suo petto stringersi contro la mia schiena e il suo respiro sui miei capelli.
- Anche io, April- disse con passione - ti amo sul serio- mi voltai per guardarlo negli occhi che sotto il cielo stellato brillavano di oro.
- Te lo dissi quel giorno, quando credevo fossi morto. Ricordo che era l'ultima cosa che avrei voluto dirti prima di lasciarti- portai una mano sulla sua guancia e delicatamente lo accarezzai lasciando che una lacrima, una sola, cadesse dal mio occhio - e non voglio che ci sia una ultima volta ancora, non voglio che qualcosa rovini di nuovo tutto. Per favore, fatti controllare il cuore- le pupille si muovevano velocemente, non volevo piangere.
- Ti ho detto di si. Vado a chiamare la cucina per portare la cena, resta qua- mi regalò un bacio a fior di labbra e poi rimasi da sola. Fissai fantasiosa il panorama che avevo di fronte, se solo gli occhi potessero fotografare...
Ero certa che ciò che avevo davanti agli occhi in quel momento, sarebbe rimasto nitido per poco perché ogni cosa, che diventa un ricordo, man mano che la vita va avanti, da nitido diviene sfocato. Mi inginocchiai per sentire l'acqua della piscina, per sentirne la freschezza, il bagnato sulle dita. Era surreale essere lì.
- Hanno detto venti minuti, ho fatto addebitare il conto sulla camera. Credo che una cena in più non faccia differenza a queste persone- disse Justin dietro di me. Annuii rimanendo con lo sguardo fisso nell'acqua. Sotto alla luce buia della notte non riuscivo a vedere il mio riflesso, le mie forme, la mia ombra, la mia copia e non sapevo se era un bene o un male - vuoi entrare in acqua?- mi domandò Justin. Si che volevo.
- No, fa lo stesso- dissi contraddicendomi in pochi secondi ma Justin mi conosceva, Justin sapeva come trattarmi e in che modo, perciò non aspettò altro tempo. Si tolse le scarpe, i calzini, i jeans ed infine la maglietta ma non si buttò dentro. Alzai lo sguardo per ammirare quel corpo, quelle braccia tatuate, la schiena da palestrato, i muscoli, le vene e i pettorali. Ero fortunata, potevo toccare e sentire anche col tatto ciò che gli occhi guardavano. Portai entrambe le mani sul suo petto e come se conoscessi a memoria il suo corpo scesi giù, fino alla pancia toccando ogni addominale scolpito. Ero circondata da tanti rumori, il clacson delle auto, la musica che veniva dalla piazza, le urla della gente, le frenate brusche dei camion, l'abbaiare dei cani e tutto accompagnato da un gioco di luci differenti fra loro. Justin mi slacciò il bottone dei jeans e tirò giù la cerniera, chiusi gli occhi. Sentivo le sue mani trascinare giù i pantaloni e istintivamente alzai prima la gamba sinistra e poi quella destra per sfilarli. Successivamente mi tolse il cardigan e la canottiera bianca, lasciandomi in intimo. Mi spostò i capelli all'indietro e mi accompagnò dentro la piccola piscina.
L'impatto con l'acqua fu freddo ma non troppo. Il piccolo venticello caldo che accompagnava quella serata mi aiutò ad abituarmi più velocemente alla temperatura dell'acqua. Il corpo di Justin era caldo e umido ma mi strinsi a lui e lo baciai, annullando la distanza fra i nostri petti. Portò le sue mani nell'allacciatura del mio reggiseno e con delicatezza slacciò l'indumento e lo lasciò scivolare provocandomi un brivido al corpo. L'acqua mi bagnò leggermente il seno e io, ancora una volta, mi spinsi contro il petto di Justin e lo baciai; lo baciai facendo entrare in gioco la lingua e divenne un momento dal quale fu difficile staccarsi perché, come una calamita, eravamo attratti l'uno con l'altro e non c'era alcuna forza negativa che riuscisse a spostare le nostre la labbra e fermare quei movimenti.
Mi prese i capelli a modi coda di cavallo, le punte erano bagnate e con le dita cominciò ad arrotolarli lasciando gocciolare l'acqua impregnata in essi.
-Perdonami per il casino in cui ti ho cacciata- mi disse, le nostre labbra erano a poca distanza fra loro; da vicino erano ancora più belle e morbide da baciare.
-Preferisco essere con te in questo casino piuttosto che al college e saperti morto. Ne usciremo, dobbiamo lottare ma ne usciremo. Non facciamoci sopraffare dalla paura, almeno non tu- lo rassicurai. Era la prima volta che avevamo invertito i ruoli - dovrei chiamare i miei genitori, almeno il giorno del mio compleanno- conclusi nonostante fossi a conoscenza del suo disaccordo.
-Ok ma attenta a quel che dici- finì mollando la presa sui capelli. Allungai una mano ed afferrai l'asciugamano che Justin aveva recuperato dal bagno della camera e lo cinsi intorno alla vita.
Composi il numero di casa e attesi di sentire la voce di uno dei miei genitori.
-Pronto?- era Mark, era mio fratello. Non sentivo la sua voce da molto, da troppo tempo e non sapevo come comportarmi. Justin cercò il mio sguardo e dopo neanche un secondo capì chi era dall'altra parte -Pronto, chi parla?- disse ancora e tornai sulla terra.
-Ciao Mark, sono April- dissi a voce bassa come se non volessi che sentisse la mia voce - c'è mamma o papà?-
-April, non ti fai sentire da una vita...pensavamo ti fosse successo qualcosa. Papà voleva persino raggiungerti ad Atlanta per vedere se era tutto ok, stai bene?- mi rivolse un'altra domanda, tipico di Mark.
-Emh si...alla grande. Sono stata molto occupata con lo studio e lo sono ancora adesso, me li passi che gli dico di non preoccuparsi?- domandai con un tono di voce più alto.
-Mi manchi e se potessi riparare il male che ti ho fatto, giuro che lo farei- disse con senso di colpa. Avrei voluto dirgli che Justin, in realtà, non era morto e che lo perdonavo ma il cuore diceva tutt'altro. Nel profondo ce l'avevo ancora con lui e chissà quando l'avrei perdonato; prima o poi l'avrei fatto però - Ti passo mamma, papà è sotto la doccia. Ah, buon compleanno... passa una buona serata- concluse passando il telefono a mia madre.
- Ciao Mark - ero sicura che non mi avesse sentito - pronto mamma!- dissi e cambiai totalmente tono di voce.
-Piccola mia, come stai? Perché non chiami ogni tanto? Ti abbiamo lasciato i tuoi spazi ma fatti sentire, ci manchi molto. Tanti auguri, aspettavamo una tua chiamata. Come sta andando lo studio? Gli amici? Quando fai una salto a casa e stai un po' con noi?- prese un respiro e rise, io feci lo stesso. Mi aveva tartassato di domande e con bugie, avrei risposto.
-La prossima volta prendi fiato. Va tutto bene, ho detto con Mike che sono molto occupata con lo studio. Ho conosciuto un po' di persone con cui mi trovo bene e sono soddisfatta, la mia compagna di stanza è una tipa tosta. Al momento non so quando tornerò in Canada, ho degli esami da preparare ma confido di venire al più presto. Mi ha fatto molto piacere sentirv...sentirti, ora devo proprio andare- dissi velocemente. Meno informazioni davo e più rimanevo al sicuro, da loro.
-Aspetta, ti passo tuo padre. Sta uscendo dalla doccia- provò a convincermi ma dovevo chiudere sul serio.
-No, salutamelo. Devo andare sul serio! A presto, vi voglio bene, davvero- archiviai la comunicazione. Ci credevo davvero in quelle parole, volevo bene ad ognuno di loro e mi mancavano parecchio - sono stata brava?- domandai a Justin avvolto nell'asciugamano.
-Fin troppo. Hanno portato la cena, ho detto loro di lasciarla dentro la stanza sapendo che eravamo in piscina- mi alzai e lo seguii all'interno della stanza. Un odore squisito proveniva da un carrello con almeno quattro portate; quella si che era una vera cena. Da buoni poveracci decidemmo di mangiare sul letto, senza nemmeno tirare via le lenzuola e se c'era una cosa che non capivo delle persone ricche era proprio questa: perchè tendevano sempre a voler essere perfetti, ordinati e concisi? Non c'era cosa più bella di poter mangiare un'aragosta calda sul letto. Gustai la cena nel migliore dei modi, finendo con un dolce tiramisù e se ce ne fosse stato un altro, l'avrei mangiato. Ero sazia e mi sentivo piuttosto piena, era da molto tempo che non provavo una sensazione del genere e scoprii che, in realtà, mi piaceva. Non necessariamente dovevo sentirmi in colpa per cosa e per quanto mangiavo.
Il telefono di Justin vibrò nella sua tasca e, lasciando nel piatto la ciotola vuota di tiramisù, controllò chi fosse.
** Numero bloccato: noi siamo in tre, voi? Buon compleanno piccola April, goditi questi giorni con Justin, sperando che non siano gli ultimi veramente **
Guardai Justin non appena finì di leggere il messaggio a voce alta. Ero rimasta scioccata e quasi senza parole, non ci stavamo basando su niente anche perché prove non ne avevamo e scappare ci sembrava l'unica soluzione plausibile.
-Deve essere qualcuno molto bravo con la tecnologia, è improbabile mandare un messaggio da un numero privato-disse Justin buttando il telefono sul materasso, fece due balzi.
-Ma probabile- dissi io - mi pare di non conoscere nessuno bravo in questo campo- guardai fuori dalla finestra, ogni giorno lottavo col pensiero - di nuovo - di poter morire.
-Chiama Cody- enunciò fissandomi privo di espressioni - abbiamo bisogno di lui- concluse ed ero sicura al novanta per cento che Cody mai avrebbe accettato una cosa del genere, non l'avrebbe rifatto se significava perdere qualcun'altro; mi piaceva pensarla diversamente, tutti ne saremmo usciti vivi.
Il cellulare aveva il 5% di batteria, a momenti mi avrebbe lasciata ma mi era concessa un'ultima chiamata perciò guardai nelle chiamate effettuate e senza indugiare, chiamai Cody, sperando che nel leggere il mio nome non avrebbe buttato giù."
NICK'S POV

"Il mio compito era quello di maneggiare il portatile e rendere possibile rintracciare April e Justin. Incastrato, obbligato e ricattato stavo facendo della mia più grande passione - i computer - una vera e propria cazzata e lo sapevo. Becky aveva il viso completamente sporco, non sapevo quale strano compito era il suo ma sicuramente più pesante di quello che dovevo fare io. Era visibilmente stanca e come potevo darle dorto, lo ero anche io.
Non dormivamo per la paura e quando ci provavamo era come se qualcosa ci dicesse che dovevamo rimanere svegli. Che vita era la nostra? E perché noi? Avevo mal di gola e un bisogno primario di bere e in quella stanza non c'era niente, niente oltre ad un computer e un tavolo.
-Non sapevo fossi bravo con i computer, pensavo fossi uno sfigato- cominciò Becky a parlare.
-E io pensavo che tu fingessi di fare la puttana, Becky- dissi arrabbiato - anzi, Elizabeth- premetti invio appena nominai il suo vero nome.
-Ho bisogno di soldi- disse lei, pacata.
-E vendi il tuo corpo?-domandai pensando fosse fin troppo assurdo.
-Dopo che lo fai una prima volta non te ne accorgi più- rispose con voce strozzata -e tu? Stai mettendo in pericolo la vita di April, di questo te ne rendi conto?- alzò la voce come se avesse trovato la forza di arrabbiarsi con me.
-Mi ha promesso che avrebbe trovato lavoro a mio padre- dissi, fissando lo schermo del computer.
-E tu gli credi? Stando al suo gioco?- cercò di muoversi ma per quello non aveva la forza - siamo le sue pedine, ci muove come vuole lui e ci promette cose che in realtà non pensa- provò a farmi ragionare ma ormai ero entrato in quel gioco.
-Devo farlo per mio padre- mi scese una lacrima perché sapevo quanto fosse dura per mio padre mandare avanti me e i miei due fratelli senza un lavoro su cui poter contare; i soldi da parte non bastavano e mamma era scappata con un altro. Becky si appoggiò al muro e chiuse gli occhi, forse esasperata dalla situazione e provò a riposarsi, per quanto fosse possibile. Continuai il mio lavoro nell'attesa di altri ordini e li avrei portati a termine se questo significava riportare serenità nella mia famiglia."

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⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 20, 2015 ⏰

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