Inadeguata

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"Ti descrivono come una donna splendida, desiderabile!" La rimproverò Benjamin, alzando il tono di voce e costringendola a farsi avanti all'interno del proprio studio. Si richiuse la porta alle spalle:
"I giornali di tutta Londra e dintorni parlano di te. Dei tuoi capelli lunghi e dei tuoi occhi dolci." Si portò una mano tra i capelli per l'esasperazione, mentre la ragazza si lasciò andare sulla poltrona soffice, rivestita in pregiato velluto cremisi, che primeggiava all'interno della stanza "Se si sapesse cosa fai, nessuno-"
"Chiederebbe la mia mano?" lo interruppe però Charlotte, sfruttando un tono severo, fitto di sfida. Era del tutto al corrente di come funzionassero le cose, così come del fatto che, una volta portato a termine quel misero compito, non avrebbe più avuto nessun'altra utilità nel corso della propria intera esistenza. Sbuffò:
"Non mi sembra che i corteggiatori stiano insistendo più di tanto in qualunque caso."
Benjamin osservò la sorella d'improvviso senza parole. Nonostante fosse sangue del suo stesso sangue, non si riteneva un uomo cieco ed era del tutto al corrente di quanto la natura avesse deciso di essere magnanima in merito alle fattezze della piccola di casa: aveva un fisico proporzionato, la vita stretta e le labbra carnose di una sirena. Fin dai primi anni della sua adolescenza era stata in grado di fare voltare uomini di qualunque età, e faticava a credere che nessuno avesse ancora azzardato a domandare di sposarla.
Si riprese:
"Questo perché ti comporti come una poco di buono."
Charlotte rise. Osservò le proprie piccole mani rivestite di un paio di magnifici guanti color panna e desiderò bruciarli:
"Nessuno sa cosa faccio o con chi."
Benjamin strinse i denti, improvvisamente più nervoso: "Io lo so."
Lei tornò a osservarlo. Gli sorrise leggermente, in maniera maliziosa: "Conosci quanto desidero che tu conosca."
Lo vide aggrottare la fronte in risposta e si disse che, per il momento, le sarebbe bastata quella piccola, segreta vittoria. Si alzò in piedi e controllò che il proprio abito fosse in ordine – che la gonna ampia, color menta, non si fosse spiegazzata, o che il corsetto non le si fosse abbassato, o che la propria scollatura fosse ancora meravigliosamente intrigante - poi tornò al fratello:
"Ora vado, Benjamin. Torno a rovinare la mia desiderabile nomea."
E, ancora prima che il ragazzo potesse imporle di rimanere, sparì dallo studio costituito di un ammasso di antichi mobili in legno abilmente lavorato, arredato di pezzi unici avvolti nei tessuti più pregiati, con le pareti tappezzate di antichi dipinti di famiglia di inestimabile valore.

A quei tempi – 1820 - i D'Ambray erano tra le famiglie più ricche della zona; di origine francese, con incredibili possedimenti sparsi per l'Europa e uno stuolo di governanti fedeli. Ma, per quanto privilegiati, c'erano stati tempi nei quali i fratelli Benjamin e Charlotte erano certamente stati più felici. Dopo la dipartita decisamente prematura di entrambi i genitori per tubercolosi si erano costretti a crescere molto più in fretta del dovuto, finendo per allontanarsi, alla ricerca di maniere differenti di sedare il dolore che aveva preso ad annidarsi in loro come un parassita famelico e inamovibile. Benjamin – fratello maggiore – aveva imbracciato il lavoro del padre e iniziato a prestare attenzione ai terreni di famiglia. Charlotte, invece, aveva iniziato a distrarsi.

Percorse i corridoi della villa a passo svelto, desiderosa come non mai di allontanarsi dai ragionamenti del fratello, a suo avviso terribilmente datati. Da parecchio tempo a quella parte, la giovane dai lunghi capelli color nocciola aveva infatti realizzato una cosa: e cioè che, viste la propria agiatezza e le proprie ricchezze, non le sarebbe mai divenuto necessario contrarre alcun genere di matrimonio. Aveva a lungo meditato di dirlo anche al fratello, ma ogni volta che lui la scovava a chiacchierare con qualcuno o a ridere animatamente, la afferrava e conduceva puntualmente nel proprio studio con il fine solo e unico di rimproverarla.

Si sfilò dalle mani gli splendidi guanti in raso e se li lanciò alle spalle. Il suono dei propri tacchi rimbombava ritmicamente tra le pareti in pietra dell'edificio, facendola sentire più sola di quanto avrebbe mai desiderato essere. Prestò attenzione alle finestre ampie oltre le quali era possibile vedere il grande giardino esterno e venne catturata dai colori vivaci dei fiori incastonati nelle siepi alte, così come dal movimento continuo delle api e delle farfalle. Immaginò la libertà e si sentì terribilmente triste quando realizzò di non essere in grado di farlo a pieno; che sapore avrebbe avuto? Che colori? Che emozioni?
Arrestò il proprio passo e si accostò di più a una delle finestre. Iniziò a contemplare con minuziosa attenzione prima il cielo limpido, poi la maniera in cui il sole brillava in ogni dove, poi i fili d'erba, i fiori – per l'appunto – e infine i ciottoli pallidi sparsi per i sentieri attentamente curati dai giardinieri. Sorrise appena.
Fuori, oltre la periferia di Londra e oltre l'Inghilterra stessa, ci sarebbe potuto essere un posto adatto a lei?
Immaginò di non doversi mai più svegliare con i rimproveri di Benjamin a rimbombarle nelle orecchie; di non dovere mai più pensare a cosa sua madre o suo padre avrebbero potuto pensare di lei se avessero saputo chi fosse diventata. Poi abbassò lo sguardo, sentendosi estremamente sporca, e rivolse la propria attenzione all'ampia gonna che stava portando indosso.

Charlotte D'AmbrayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora