"I ricordi s'intrecciano come onde nell'oceano."
I confini della sua mano brillavano investiti da un un morbido tepore calante.
"Rivedo ogni momento, ogni istante..."
Fasci aranciastri le filtravano fra le dita proiettandole ombre frastagliate sul muso.
"Una voce incessante, un lontano eco..."
Il colore fangoso delle squame fu sopraffatto dal riverbero dorato del sole. La coda era sdraiata con lei sull'erba autunnale, immobile, come parte integrante del paesaggio.
"Non riesco a farli smettere."
Gli occhi si adattarono a fatica alla luminosità. Un attimo di salvezza, uno soltanto, prima che la consapevolezza la investisse. Le rughe assediarono i lineamenti come fratture nella pietra, le palpebre si strinsero. Con una tensione singola si mise in piedi, scrollandosi ferocemente di dosso i residui del poco riposo.
"E' ora."
Si acquattò dietro una duna argillosa, non più alta di un paio di metri al suo apice, l'unico riparo degli ultimi giorni. Di fronte a sé si stagliava ancora metà della vallata. Un'immensa distesa d'erba, qualche raro arbusto e un piccolo, spettrale ruscello eran tutto ciò di cui si componeva, racchiusa tra gli aguzzi pendii di roccia vulcanica. Un enorme cratere crollato, lungo cinquanta kilometri e largo altrettanti, riempito da millenni di pioggia mai stati in grado di ospitare più delle lumache e qualche topo di campagna. Gran parte del luogo era già invasa dalle tenebre, che agognavano e mangiavano terreno ad ogni secondo.
Avvolse le provviste in un panno perché ne smorzasse il rumore, raccolse la canotta dalla roccia tiepida e se la mise. Era larga, rozza, calibrata su dimensioni maschili che malgrado la stazza non riempiva per intero. Era cucita con grossa lana marrone, disseminata di cicatrici lasciate dai rovi. Pantaloni da fabbro color felce coprivano le gambe, tappezzati di tasche lungo le cosce, alcune vuote, altre piene. Un foro artigianale sul retro permetteva alla coda di passare e muoversi con relativa libertà. Strinse in vita il cinturone malconcio, lo assestò perché il fodero appoggiasse sul fianco destro, dalla cima spuntava una barra metallica, unica parvenza d'impugnatura della spada. Un'ultima occhiata alle sue spalle, poi si mise in marcia. Con andatura costante e profilo basso si mise a correre tra i fili d'erba. Movenze precise quanto potenti, che al suo passaggio lasciavan solo fruscii d'erba e lievi tonfi delle piante scalze sul terreno nudo. La coda restava parallela al suolo, riadattandosi ogni tanto per aggiustare l'equilibrio quando si faceva precario.
Trascorse ore a quel modo, senza mai fermarsi. Lo sguardo consumava vigile gli ettari calpestati e quelli a venire. Il buio la ostacolava, ma mai al punto di impedirle di avanzare. Anche quando la tenebra si inspessì la marcia non si fermò. Sull'intera valle regnava un silenzio irreale, come se il mondo intero stesse trattenendo il fiato. L'alba si fece a lungo desiderare. Il primo raggio di sole bagnò le ferite dei picchi illuminando i versanti a ovest. Drizzò il collo e si fermò a guardare la nascita del nuovo giorno. Si concesse pochi secondi, un lusso di cui forse non poteva disporre. La realtà delle cose la colpì come uno schiaffo: era il momento di trovare un nuovo riparo.
Passò più di un'ora prima che ne scorgesse uno: un grosso macigno, crollato forse dalla cornice. C'erano frammenti sparsi tutt'intorno dalle più disparate dimensioni, da quelli grossi quanto il suo busto a quelli non più di un pugno. Un rifugio troppo ovvio, ma era l'unica alternativa. Disfò i bagagli e si abbandonò a terra con una smorfia esanime che sfoggiò tutti i denti aguzzi. Esausta si trascinò fino al macigno e vi si sedette contro, raccogliendo il volto tra le mani. Si strappò la canotta di dosso e volle lanciarla lontano, ma le riuscì solo un tiro scarso. Assaporò la frescura sulla corazza umida di sudore. Aveva un fisico importante, forte, con quel minimo che bastava a ricordare ch'era donna. O femmina, in base ai punti di vista. Si lasciò attraversare dalla brezza e dai primi pallori rosati che si affacciavano sul cratere. La tensione sul muso lucertoliano si dissipò come petali al vento. Il calore del primo sole era un'ammaliante abbraccio che cullava i salti tra un pensiero e l'altro. - Un ciottolo smosso. - La luce proiettata attraverso le palpebre tingeva il mondo di rosa e arancio. - Erba, fili d'erba. - La coscienza si allontanava, sentiva le braccia appesantirsi, le membra perdere vigore... - Unghie, no, artigli. - Nero, tutto nero... Un lampo tranciò di netto il velo del dormiveglia.
Spalancò gli occhi e si issò di scatto oltre i macigni. Due segugi sfrecciavano di pari passo nell'erba alta in sua direzione, a cinque passi l'uno dall'altro. Fece appena in tempo a estrarre la spada. Era a stento definibile un'arma, solo un'anima in acciaio senza guardia né impugnatura, ma la interpose fra sé e i canini e resse l'impatto. La bestia mordeva, sbavava sull'arma e ne venivano suoni raccapriccianti mentre spingendo in avanti la pelle veniva tagliata. Una fitta lancinante trafisse l'avambraccio destro e un sibilo ferino tinse il vento. I denti dell'altro segugio eran serrati nella carne e strattonavano. Strinse forte le dita e mozzò la testa del primo a metà, poi fu la volta del secondo. Ci vollero alcuni secondi perché smettesse di mordere. Il canto di un corno echeggiò lugubre sulla distanza.
Rinfoderò la lama e si mise a correre, con tutte le forze che aveva. Avrebbe voluto fermarsi a prendere le sue cose, ma non ne avrebbe avuto il tempo. Un tenue scalpitio di zoccoli s'ingrandiva poco a poco. Non osava girarsi, le bastava sentirli per capire che non erano a più di un paio di centinaia di metri. Erano due, forse tre, massicci abbastanza da farsi sentire da tanto lontano. La fine della vallata era vicina, mancava un chilometro, forse due, e avrebbe dovuto riempirli correndo più veloce di un cavallo al galoppo. Non ce l'avrebbe mai fatta. Le fatiche della marcia serrata si facevano già sentire a gran voce, le cosce bruciavano, gli addominali s'irrigidivano per fuggire le fitte di dolore, la ferita e il cuore in petto pulsavano all'unisono. Le urla dei cavalieri sembravan la sostanza stessa che li spingeva avanti. Il sangue pompava come un martello nelle tempie, la mente andava annebbiandosi... I suoni presto non furono che una poltiglia mischiata agli altri sensi, il tempo iniziò a scorrere lento. Sentiva ogni lembo di carne torcersi sotto le squame, ogni stilla che come chiodi faceva gemere le membra, ogni fiato buttato per una vita che forse non sarebbe durata abbastanza da meritarli. Chiuse gli occhi. Era un bel giorno per morire.
Lentamente sollevò le palpebre. Erano pesanti, respirare era un'agonia. Vedeva nero. Qualcosa di freddo le premeva sugli zigomi, la sensazione di bagnato era impossibile da allontanare. Un rantolo arido le fuggì dalla gola quando provò ad alzarsi. Le braccia tremavano, aiutandosi con esse alzò il busto a tentoni. Qualcosa cedette sotto la destra e finì immersa nelle viscere fino a metà avambraccio. Erano fredde. Doveva essere passato almeno un giorno. Con cinico disgusto ritrasse il braccio e spese qualche secondo a osservarlo da vicino. I colori stavano tornando. Si aggrappò al tronco di un arbusto solitario e si tirò in piedi a forza. Lo scenario fu desolante. Sei carcasse riverse sull'erba secca, il terreno era tinto del colore del sangue per metri. Un cavallo aveva la gola squarciata, uno un foro sul ventre, l'ultimo aveva un fianco percorso per intero da un grosso taglio. La carne s'era strappata come carta. Dei loro tre cavalieri non rimaneva molto di più, circondati dalle loro lance spezzate . Un orso che reggeva uno scudo su fondo viola e bordi gialli decorava le loro tuniche.
Nemmeno una goccia di quel sangue era suo, tutto quel sangue... Spiegò il palmo davanti al muso e si perse a osservarlo filtrare tra i reticoli delle squame. Sentiva ancora il sapore acre dell'adrenalina, il tremore dei muscoli e la mente vuota, stordita. Il braccio pulsava da impazzire. Se lo spalmò sul viso. Il sole era alto già da due ore e del bellissimo pallore rosato che ricordava non v'era più nulla. La marcia era ripresa, lo stomaco era vuoto e la sua coscienza sempre più labile, i passi si trascinavano e inciampavano sui ciuffi erbosi incagliati nel terreno. Il respiro si fece via via più incostante, il cuore pompava tanto da trasmettere il suono ai timpani. Riempì il petto con tutta l'aria che trovò.
« Hraaaaaaaaaarghh!!! »
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Il Soldato di Porcellana
FantasyAnno 202, Irïedin. Vaarah, una donna rettile appartenente a una civiltá forestiera non può tornare dal suo popolo per ragioni che non racconta. Il suo viaggio con Daeris, la figlia di un cacciatore fuggita di casa, comincia con una meta in comune e...