CAPITOLO 2 - UN NUOVO GIORNO

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Il passo che collegava il cratere alle piane di Rist era stretto, la notte di luna calante dava a ogni ombra tratti mostruosi, ogni suono, ogni scricchiolio portava la sagoma di un soldato in armatura, del muso di un cavallo, di un braccio, di una gamba. Tutto ciò che sapeva era che dava in direzione della capitale, e tanto le bastava. Non era certa di quanto tempo fosse passato dall'inseguimento, ma si sbrigò prima che qualcun altro la trovasse. C'erano sicuramente altre squadre ad aspettarla a valle. Davanti a lei si apriva un'immensa prateria che si estendeva a perdita d'occhio, rotta a nord e a oriente dalla catena dei monti Faruan che rovesciavano una secchiata di conifere sugli aspri versanti. Il monte Butan era unico nel suo genere, un diamante in mezzo ai sassi, alto ottomila metri di cui metà coperta di ghiaccio ogni mese dell'anno. Lì da qualche parte riposava Kartha, arroccata fra le spesse mura che la resero leggendaria. Le sarebbe piaciuto poterlo vedere, si diceva che fosse uno spettacolo a cui dover assistere una volta nella vita.

"Magari nella prossima", pensò.

Si sedette su una roccia a riprendere fiato, minuti d'ozio preziosi che capitalizzò riposando gli occhi. Quasi si sentì svenire. Sarebbe stato bello non doverli riaprire, abbandonarsi lì, dimenticare i problemi. Il sangue aveva smesso di colare dalla ferita, quello secco la teneva chiusa, ma sarebbe peggiorata. Prima di accorgersene iniziò a pensare. Discendere il versante e immettersi sulla piana era fuori discussione, sarebbe stata un bersaglio troppo facile; doveva passare per la foresta. Sperava che in quell'arco di tempo nessuno l'avrebbe notata. La notte non andava sprecata.

L'alba successiva era smunta, un deprimente manto biancastro illuminava la terra e uno grigio oscurava il cielo. Le temperature eran più basse di cinque gradi fuori dal cratere e la mancanza di raggi impediva al suo sangue di scaldarsi a dovere. Irrigidita dall'acido lattico abbandonò il sentiero. Attinse a tutta la sua forza per continuare a muoversi. Alzò il capo al cielo, il fiato affannato sembrò rivolgerlo dritto verso di esso. Era all'incirca l'una del pomeriggio e dei soldati ancora nessuna traccia. Sei ore trascorsero piatte, senza rumori né novità, ma l'apprensione della fuga non la lasciava mai. I rumori della piana furon gradualmente rimpiazzati dal lento fruscio delle foglie e degli aghi. Era un suono melanconico, le ricordava casa.

La foresta sembrava tutta uguale, ma i suoi occhi vedevano oltre i tronchi e il muschio. Seguivano i sentieri invisibili tracciati dai cervi, le scorciatoie tra i cespugli conosciute dalle lepri, i terreni più semplici percorsi dall'acqua. Si fermò solo per abbeverarsi. Quella calma la penetrava, sentiva i suoi tentacoli stringere le tempie, la induceva a pensare. Seguendo il fiume notò il letto allargarsi fino a immettersi in un corso maggiore, la cui corrente colava langue verso le piane. Si lasciò trasportare per una breve tratta, per cancellare la sua traccia di odore. Non sapeva se ci fossero altri segugi. L'acqua era fresca, ma smise di essere un sollievo quando l'accaldamento si sciolse e il corpo smise di generare calore. Ironicamente era stata la marcia incessante a proteggerla dall'ipotermia. Continuò a quel modo finché il gelo non la costrinse a uscire. Grondava acqua sanguigna e non smetteva di tremare. Il sole scomparve in anticipo sotto il fitto. Radunò il necessario per un fuoco e potè finalmente fermarsi. I ciottoli sopra il legname tenevano le fiamme basse perché non fossero scorte. Si rannicchiò sul terreno gelido, si avvolse con la coda, e strinse lo stomaco fino a che la stanchezza non spense ogni cosa.

Sognò stormi di uccelli sulla sua testa, aria fresca che le batteva le guance, il dolce odore di casa e lontane voci che riconosceva. Tutto era come lo ricordava, le palizzate appuntite che tenevano fuori il mondo, il vivace brusio di vita al loro interno.

"Sarai brava come tua madre, un giorno" diceva il vecchio Ohrka, chino in avanti per trovare i suoi occhi.

Modellava un vaso su un tornio, con quell'argilla unica delle sue terre e il suo colore violaceo, senza risultati degni d'essere ricordati. Ma se li ricordava, tutti quanti. Li sognava spesso. L'espressione di suo padre quando partiva, che la guardava come se sperasse che non crescesse mai, che non dovesse mai affrontare la vita. Il suono terribile delle canzoni che sifulava attraversando i cancelli. Il profilo delle sue spalle secche che si allontanavano.

Quando riaprì gli occhi le palpebre erano come incollate, venate di sale asciugatosi sulle squame. Il sole era già sveglio. Si alzò in piedi, cancellò le tracce del falò e riprese la marcia. Passarono due ore e dei suoi inseguitori ancora nessuna traccia. Il sollievo fu enorme e si permise di rallentare. Di cacciare. L'idea la solleticava, non mangiava da quattro giorni, forse cinque, neppure lo ricordava. Seguì una pista fresca nell'erba alta, lasciata da qualcosa di piccolo. Pensò a un coniglio. Era l'unico animale che ricordava che fosse più piccolo di un cane e più grande dei topi. La percorse fino a uno spiazzo silenzioso circuito da un letto di querce. Al centro una volpe annusava il suolo, sulle tracce della stessa creatura. Aveva un manto grigiastro, sfolto, una pancia magra di giorni. Appena mosse un altro passo quella rizzò le orecchie e si volse verso di lei. Non era sicura di che animale fosse, se l'avesse già visto prima. Le ricordava un lupo, all'incirca, ma poco importava. Corse fuori dai cespugli e subito l'animale fece lo stesso nell'altra direzione. Si sentì trafelare già dopo pochi metri, e crollò al suolo quasi soffocata dal cardio impazzito. Non aveva neppure saliva da versare. I denti si sporcarono di polvere e terra. Rotolò esausta su un fianco.

Lo scenario era cambiato, i fusti erano più radi e i cespugli si aprivano su un sentiero scavato dall'uso costante. Lo stesso su cui appoggiava la faccia. Lontano, un centinaio di metri circa, le parve di scorgere un'abitazione. Quando fu più vicina divenne più tristemente nitida: il legno era marcescente e spezzato in più punti, le felci e i rampicanti avevano invaso l'edificio. L'odore delle muffe infestava le assi, tremendamente intenso, tanto che dovette coprirsi le narici. Quando trovò l'ingresso si stupì però di trovarlo brullo, scevro di vegetazione. Sul terreno si vedevano i solchi che la porta aveva scavato nell'aprirsi. Subito mise mano al fodero. Posò l'orecchio contro la porta e per minuti rimase in attesa. Nessun rumore. Cauta decise di abbassare la maniglia, i perni cigolarono troppo rumorosamente. Un abbagliante fetore di morte la travolse.

Il Soldato di PorcellanaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora