È stata una settimana intensa, dedita agli spostamenti. Il giorno del mio quindicesimo compleanno l'ho trascorso in viaggio tra Lampedusa e la Sicilia. Dopo essere stati accolti negli Hotspot, ci hanno trasferiti a gruppi in varie regioni d'Italia. La mia nuova casa sarebbe stata Palermo, in Sicilia.
È dal viaggio in mare che mia madre non ha più avuto la forza di fiatare. Quando la guardo non posso non notare gli occhi rossi e gonfi dal pianto. Non ci siamo scambiati neanche una parola. Quest'anno niente auguri di buon compleanno, c'è davvero poco da festeggiare. Fino ad un anno fa trascorrevo il giorno della mia nascita con tutta la famiglia. Era solito tra noi rinunciare a tutto per stare assieme. Il giorno prima caricavamo recipienti d'acqua al pozzo che sarebbero dovuti bastare anche per la giornata successiva, papà lavorava il doppio per poter meritarsi un giorno di festa senza troppi problemi. L'atteso giorno lo passavamo in famiglia, ridendo e scherzando, giocando e ballando. Era una vera e propria festa, una sorta di rito che festeggiavamo quattro volte all'anno. Mamma e papà erano contenti di stare con noi, ci davano corda e sembrava proprio fossero ritornati bambini. Un giorno decidemmo di giocare a nascondino fuori casa, tra il villaggio e i raccolti di papà, perché oramai a casa tutti i nascondigli erano stati scoperti. Contai il dovuto tempo, riuscii a trovare dopo un po' Atsu e mamma che segretamente mi svelarono che papà si era diretto verso le terra ma che era compito mio trovarlo; mi incamminai poi verso i raccolti per andare a controllare il capanno degli attrezzi, parlando ad alta voce con lui perché ero già convinto di averlo trovato. Ad un certo punto, al mio fianco destro, la terra si mosse di scatto, il terriccio si alzò e un urlo mi spaventò. Fu il giorno in cui risi più di quanto mai fatto: papà si era nascosto sotto terra in una fossa precedentemente scavata per lavoro, buttandosi addosso tutto il terriccio per non essere scoperto. Uscì dal nascondiglio e corse verso la tana per vincere. Il giorno più bello della mia vita!
Ora, però, giace silenzio. È diventato ormai abitudine non fiatare. Accomuna a me e mia madre il dolore per aver visto con i nostri occhi la morte di Atsu, gli occhi rossi dal pianto, il fitto nodo in gola che sembrerebbe abbia la forza di strozzarci, il viso umido e pallido, le mani che tremano, lo sguardo perso nel vuoto.
Mi sento dannatamente morto dentro. Ho visto mio fratello sfuggire dalle mie mani e annegare lentamente. Un corpo galleggiante. E io non potevo fare nulla.
Siamo rimasti in due.
Subire le morti di papà e di mio fratello, anche relativamente vicine, sono un duro colpo difficilmente da mandar giù e resteranno impressi per sempre nel mio vissuto.
Ripenso spesso al mio passato, quando tutto era normale, quando giocavamo a nascondino, quando tutto andava bene.Il pullman si ferma.
Iniziano tutti a scendere, segno che siamo arrivati a destinazione. Ci alziamo dal posto in cui fino ad un attimo prima eravamo seduti per seguire i loro passi.
Un uomo sui cinquant'anni, o forse di meno, alto, con una canottiera grigia addosso e dei capelli castani leggermente bianchi e scomposti, ci aspetta alla fermata per darci indicazioni. Si appresta a parlare tranquillamente in italiano e indubbiamente gli sarà sfuggito il fatto che siamo stranieri.
Un ragazzo accanto a me, alto e magro, dai capelli neri e rasati ai lati, gli risponde in inglese, chiedendogli di spiegare nuovamente seguendo quella lingua. L'uomo si scusa e ricomincia il discorso, questa volta in inglese.
Non ho mai avuto la possibilità di andare a scuola né di imparare l'inglese, mi diventa quindi difficile comprendere il discorso anche in questo caso.
L'uomo conclude la spiegazione e si accinge a camminare, facendo noi cenno di seguirlo.
Iniziamo a camminare, domandando tra me e me cosa l'uomo avesse mai detto e verso cosa ci stiamo incamminando. Attimi dopo alzo lo sguardo e osservo il ragazzo di poco fa: cammina a testa alta con le mani nelle tasche del suo jeans. Picchetto il suo braccio per richiamare la sua attenzione.
«Ciao. Mi sapresti dire cosa ha detto quell'uomo? Non conosco l'inglese e mi trovo in difficoltà» – gli chiedo continuando a camminare.
«L'uomo ci ha detto che ci troviamo nella strada principale del quartiere in cui andremo a vivere. Ora ci sta accompagnando lì. Ci ha spiegato che è un quartiere di case popolari dello Stato, il quale le mette a disposizione per chi ha bisogno»
«Grazie mille» – lo ringrazio timidamente.
Il ragazzo abbozza un sorriso.
«Come ti chiami?» – mi chiede.
«Malik, e tu?»
«Ahmed»Arriviamo ai piedi del quartiere. È un posto freddo, poco curato e in disordine. C'è tanto casino nei dintorni e tante scritte colorate sui muri delle case. Ci sono rifiuti sparsi per le strade e rispetto a queste ultime non sono fatte di terreno, c'è l'asfalto anche se sono poco curate e piene di buche. Grandi auto colorate parcheggiate per il posto, biciclette appoggiate ai muri, cicche di sigaretta per i marciapiedi. Ci sono tante case in ogni angolo della strada, il sole non riesce a filtrare per i vicoli del quartiere. Gli appartamenti hanno più piani e ci vivono più famiglie. Vestiti appesi ai balconi aspettando che il sole li asciughi. Ciò che ho potuto notare da quando sono arrivato qui è il modo differente di vivere, uno stile completamente diverso e innovativo, evidente anche nelle case e nelle macchine. Non avevo mai visto un pullman prima d'ora. Magari in centro a Touba esistevano a mia insaputa, fatto sta che in periferia non ne ho mai visto neppure l'ombra. È tutto più moderno qui rispetto al mio villaggio; sarà dura adeguarsi. Mi guardo attorno con occhi grandi, pieni di stupore e curiosità.
Saliamo le scale della struttura fino ad arrivare ai corridoi al primo piano. I passi alternati della gente animano il silenzio del momento.
L'uomo riprende la spiegazione. Al termine di quest'ultima, il ragazzo ricorda le mie difficoltà con la lingua e mi traduce il discorso.
Abbiamo cinque appartamenti a disposizione su questo piano e sedici appartamenti disponibili al piano di sopra. Possiamo scegliere qualsiasi appartamento: sarà la nostra futura casa. La folla si disperde tra i due piani. Volgo il capo per guardare mia madre. Ha le occhiaie e gli occhi rossi. Mi guarda in silenzio facendo una smorfia, segno di indifferenza rispetto alla scelta dell'appartamento.
Camminiamo per il corridoio, con i borsoni tra le mani, stanchi e affranti da queste due settimane da incubo. Arriviamo alla fine del corridoio che termina con una finestra che filtra la luce naturale dall'esterno. Osserviamo la porta dell'appartamento alla nostra destra: dovrebbe essere presumibilmente l'appartamento migliore tra tutti e cinque a giudicare dalle decenti condizioni della porta d'entrata. Io e mia madre ci guardiamo e con un leggero cenno comune ci accordiamo. Apriamo la porta con la chiave nascosta sotto lo zerbino ai piedi dello stesso appartamento. Varchiamo la soglia e come prima cosa appoggiamo tutti i borsoni sul pavimento. L'appartamento è abbastanza piacevole ad eccezione del clima freddo che emana la carta da parati di colore blu chiaro, caratterizzato da delle sottili linee verticali ripetitive. È molto spazioso. Il soggiorno e la cucina sono connesse tra loro e si affacciano ad un piccolo balcone; c'è anche un frigorifero, una cucina e la lavatrice, la corrente e tante altre tecnologie mai viste. Il tavolo è più grande di quello che avevamo a Touba e non traballa, il bagno è ristretto, fatto di ceramica e ha una doccia che impiega l'acqua delle tubature, è pulita e si può anche bere: niente più acqua del pozzo; infine una camera da letto con un letto matrimoniale.
Mia madre si lancia a peso morto su quest'ultimo a pancia in giù. Si lascia andare.Inizio a sentire dei piccoli lamenti affogati tra le lenzuola del letto: lamenti affranti, pieni di tristezza, espressione di dolore. Afferra le lenzuola e le stringe con forza tra le sue mani, come segno di disperazione. Riaffiorano alla mia mente i momenti più desolanti vissuti nel giro di due mesi. Mi appaiono davanti agli occhi le scene peggiori: la morte di Laaban, della moglie, gli attimi di panico, le urla, gli spari, l'uomo malvagio ai piedi del letto, Oba, i corpi, il sangue, mio padre, il viaggio, il mare, il vento, Atsu.
Con delicatezza mi siedo sul bordo del letto, accanto a mia madre.
Silenzio, silenzio colmato dal pianto addorolato di una donna che vede morire con gli occhi suo figlio.Fisso il vuoto. Silenzio.
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IT HURTS
AventuraMalik Samparé, 15 anni, naque a Touba, in Senegal, nella parte occidentale dell'Africa. Un semplice ragazzo dagli occhi marroni, un naso largo tipico africano ma che non dispiace per nulla, capelli rasati per tutto il capo e con la caratteristica di...