δύο · Ade

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Il retroscena


La prima volta che la vidi non sapevo chi fosse. Certo mi parve bellissima, colma di una purezza che mai avrei creduto di incontrare proprio nel mondo dei mortali. Eppure non la riconobbi immediatamente, dovetti osservarla a lungo e fu il tempo che spesi ad ammirarla a segnare la mia condanna. Perché quando riuscii finalmente a capire con quale nome avrei dovuto rivolgermi a lei, compresi anche che non mi sarebbe mai stato concesso di parlarle.
Non a me. Non al dio dei morti, colui che regna negli Inferi.

Maledetto sia il giorno in cui iniziai ad uscire dall'Oltretomba.

La prima volta che visitai gli umani, sebbene mi costi ammetterlo, fu per curiosità. Accettare questa assurda verità per me non fu affatto semplice, non trovando io alcun motivo plausibile affinché esseri così effimeri, dalle vite brevi e insignificanti, potessero meritare la mia attenzione. Per loro non provavo alcuna compassione. Tuttavia capii ben presto che nemmeno io, il temibile signore dell'Ade, ero indifferente al fascino che queste misere creature avevano sempre esercitato su noi divinità. L'incisività di un attimo, la potenza di un scopo da coltivare, l'incertezza dei giorni futuri... restano concetti totalmente estranei ad essere immortali quali me e i miei fratelli.

Nella nostra illimitata esistenza, siamo anche noi creature limitate.

Il mio caso, tuttavia, ha una particolarità a cui intendo fare appello per non essere paragonato in tutto e per tutto a coloro che abitano l'Olimpo. Io, a differenza loro, non posso evitare a prescindere ogni contatto con i mortali, poiché allo scadere del loro tempo sulla Terra essi giungono nel mio regno. E avendo passato tutta la mia esistenza ad accogliere le loro anime, vivendo con l'eco costante dei loro tormenti, si era annidato in me il desiderio di scrutarli da vivi, prima del loro passaggio, prima della loro morte.
Mi lasciai perciò tentare da questa sete di conoscenza, e ogni tanto mi concessi una tregua dalle mie mansioni per varcare la soglia degli Inferi.

Fu durante uno di questi viaggi che la incontrai. Come di consueto avevo tolto la mia corona e ogni segno che potesse ricondurre a me, e mi ero diretto verso una radura nei pressi di Lárissa, città della Tessaglia. Nonostante mi fossi ormai abituato all'atmosfera terrestre, cercavo sempre zone ombreggiate perché continuavo a trovare insopportabile la luce del sole troppo intensa. Così come la mia pelle odiava tutto quel calore, per i miei occhi dover tollerare quella luminosità e quei colori sgargianti era una tortura. Per questo le mie passeggiate diminuivano nelle stagioni calde.

Quel giorno il clima non era eccessivamente sgradevole. Stavo camminando lungo la sponda di un fiume, quando al mio orecchio giunse il suono di risate gioviali. Poiché ero ormai distante dai confini della città, mi allontanai dal corso d'acqua e mi inoltrai nel bosco seguendo le voci. Approfittando della fitta vegetazione arrivai inosservato vicino uno spiazzo erboso, dove alcune bellissime fanciulle giocavano spensierate.
Ninfe, pensai. Fra tutte loro mi colpì una figura sulla destra, la quale data la mia posizione potevo vedere solo di spalle. Costei aveva un lungo manto di capelli ramati, folti e ribelli, e la sua pelle ambrata risaltava nelle vesti candide. Quando poi si girò verso le sue compagne e mi fu possibile vederla in viso, rimasi impietrito. Mi fu chiaro sin da subito che una tale bellezza non poteva appartenere a quel mondo terreno, e perciò la scambiai per una ninfa come le altre intorno a lei.

Mio malgrado restai a contemplarla. C'era qualcosa in lei che andava oltre la semplice bellezza; avevo la sensazione di trovarmi di fronte ad un mosaico e aver appena iniziato ad ammirarne la complessità. Mi colpirono gli occhi, limpidi come il cielo, e le curve morbide e generose del suo corpo, la grazie in ogni suo gesto e la spontaneità del suo sorriso. In lei danzavano purezza e sensualità.

Senza rendermene conto, una parte di me l'aveva già scelta come mia sposa.

In quel momento scoprii soltanto di desiderarla ardentemente. Avrei potuto avvicinarla, sedurla come avevo fatto con Myntha, e possederla proprio lì, tra i fiori selvatici. Un fremito mi scosse al solo pensiero.
Ma lei non era Myntha, niente dell'essere innocente che avevo davanti agli occhi mi ricordava la ninfa a cui avevo aperto le porte dell'Oltretomba e reso mia amante. La giovane di fronte a me era diversa, e sebbene non l'avessi mai incontrata prima di allora, avevo la strana sensazione che avrei dovuto conoscerla, o quanto meno associarla ad un nome.

Motivo per cui lasciai che il mio sguardo vagasse ancora sulla sua figura, in cerca di un indizio. Ma quando lo trovai, mi pentii amaramente di averle dedicato tanta attenzione. L'evidenza che fino a quel momento mi era sfuggita si abbatté su di me con la violenza di una folgore, quando mi accorsi del germogliare dei teneri boccioli al suo tocco gentile. Iniziavo ad avere un terribile sospetto, e infine il risveglio della flora intorno a lei mi tolse ogni dubbio: quella meravigliosa creatura non poteva essere che Kore, la figlia di Demetra.

Sgranai gli occhi e serrai la mascella. Dopodiché mi riscossi e mi voltai bruscamente, senza degnarla di un altro sguardo. Dovevo andarmene da lì, dimenticare di esserci stato, al fine di evitare un incidente diplomatico ed avere meno rapporti possibili con gli olimpici. Non temevo Demetra, tuttavia sapevo che scatenare l'ira di una madre non era una scelta saggia. Non avrei mai fatto un simile errore.

Nonostante ciò i giorni che seguirono furono per me carichi di rabbia e tormento. Mi ritrovai in lotta con me stesso, e mi imposi che qualora io fossi tornato sulla Terra, mai e poi mai l'avrei fatto per cercarla. Se non avrò altri contatti con lei, mi dissi, potrò fingere di non averla mai vista. Potevo illudermi che fosse così, ma ogni volta che chiudevo gli occhi vedevo il suo viso, perché tutto di lei era rimasto fermamente impresso nella mia mente. Cancellare una visione simile mi parve impossibile, e presto divenne un'ossessione. Il giorno che varcai nuovamente le porte dell'Oltretomba, la collera verso me stesso era tale che le anime zittirono al mio passaggio, i lamenti cessarono, e Cerbero smise di latrare. Non mi perdonavo la scarsa forza di volontà.

Se incontrarla era stato un caso, tornare da lei una scelta consapevole.

Ritrovai Kore nella foresta e restai ad osservarla nell'ombra, nascosto dalla vegetazione. Ad un tratto provai una tale vergogna per me stesso che avrei voluto incenerirmi da solo. Io, Ade, il signore degli Inferi, unico dio in grado di governare sulla morte e sulle ombre, acquattato nel sottobosco come un reietto, come un ladro. Dov'era finito tutto il mio orgoglio? Dov'era la mia dignità? Ero infuriato con me stesso e iniziai ad indirizzare la mia ira anche verso di lei. Come osava farmi questo, senza neanche rendersene conto?

Nonostante i miei sentimenti contrastanti tornai a cercarla, e ogni volta sentivo crescere sempre più forti in me la rabbia e una dura consapevolezza. Più la scrutavo dal mio nascondiglio, più mi convincevo che una creatura così pura e delicata non avrebbe mai potuto trovare niente che valesse la pena apprezzare in un essere tetro e spietato come il dio degli Inferi. Il mio mondo non le apparteneva, come io non appartenevo al suo. La dea della fertilità, e perciò della Vita, non avrebbe mai potuto congiungersi al dio della Morte.

Ancora non ne ero consapevole, ma si stava insinuando in me un'idea malata, perversa, di cui avrei preso coscienza solo molto dopo.

In quei giorni mi preoccupavo solo di allontanarmi dal mio regno e rintracciarla nei boschi. Sebbene fossi adirato con lei, una parte di me non poteva fare a meno di apprezzare quel poco tempo che passavo a contemplarla. Ogni giorno aggiungevo un tassello in più, imparavo qualcosa di nuovo su di lei. Questo, però, accrebbe la mia imprudenza, mi spinse a rischiare sempre un po' di più.

Finché non commisi uno sbaglio, irreparabile per entrambi.

Kore era particolarmente allegra quel dì, raccoglieva narcisi noncurante di essersi allontanata dalle ninfe. Per me seguirla fu spontaneo. Osservavo i suoi gesti, provavo ad immaginare cosa potesse passarle per la testa. Poi ad un tratto sentii delle voci: le sue compagne la stavano chiamando. Perciò mi nascosi e attesi, guardando la sua figura allontanarsi. Aspettai pazientemente che tornasse, non volendo espormi, ma siccome sembrava essersene andata definitivamente uscii dal mio nascondiglio. Feci qualche passo verso il ruscello e vidi qualcosa nell'erba che catturò la mia attenzione. Era un mazzo di narcisi, il mazzo che lei stava raccogliendo. Istintivamente lo raccolsi e iniziai a rigirarlo tra le mani, non particolarmente colpito dal profumo. Quando mi accorsi che Kore era riapparsa di fronte a me era già troppo tardi. Fuggire non avrebbe avuto senso, sarebbe servito solo a scalfire maggiormente il mio orgoglio già logoro.

Quella fu la prima volta che le parlai, ebbi per la prima volta la sua totale attenzione e la sensazione che ne derivò fu tutt'altro che spiacevole. Fui inevitabilmente brusco, sia per carattere che per l'imprevedibilità della situazione. Tuttavia lei si mostrò gentile con me, insistette affinché tenessi il mazzo di fiori. Lo trovai un regalo insolito, e inutile considerando che nella mia dimora non splende il sole. Avrei voluto dirglielo, ma non lo feci. Ringraziai e portai il suo dono con me.

Per quanto mi fu possibile, cercai di custodirlo concura.

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