επτά · Kore

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Il patto


Seppur breve, quel bizzarro tratto in carrozza con Ade mi aveva lasciato un'infinità di domande. Non trovavo alcuna spiegazione per il suo comportamento, e ancor meno riuscivo a capacitarmi del mio: perché non avevo esitato a fidarmi di lui? A mente lucida mi accorsi di quanto fosse stato imprudente da parte mia salire sul suo mezzo senza conoscerne neppure la destinazione, affidandomi a un dio incontrato due volte appena. Eppure non avevo avuto paura. Di certo ero intimorita, allarmata, confusa... ma mai spaventata.

Cosa mi aveva spinto ad abbassare la guardia?
O forse era proprio questo il punto: non avevo mai abbassato la guardia.

Se c'era qualcosa che più mi tormentava oltre ai tanti interrogativi, erano le sensazioni che Ade mi aveva trasmesso. Mi erano rimaste impresse nello stesso modo in cui un fulmine lascia la sua impronta sul terreno. Non avevo mai provato tante emozioni tutte insieme: inquietudine, curiosità, imbarazzo, smarrimento, tenerezza, fastidio, oppressione, tormento... Ade era un vortice di sensazioni a cui bastavano pochi secondi per travolgere. Nessuno mi aveva mai turbato tanto, ma del resto ero quasi sicura che non esistesse altro dio come lui. Per questo, anche se mi costava ammetterlo, non mi sentivo del tutto pentita della mia decisione.

E persino adesso, seduta su un masso all'ombra di un ulivo, circondata da florida campagna, non riuscivo a non pensare a quei due abissi tenebrosi che con un solo sguardo avrebbero potuto annegarmi. Non ero proprio in grado di immaginare cosa avessero potuto vedere in me quelle perle scure, cosa avesse attirato la loro attenzione tanto da farmi salire sulla carrozza. Era forse stato uno scherzo di cattivo gusto? Ne dubitavo, Ade non mi sembrava certo il tipo che avesse tempo da perdere. Quindi quale era il suo scopo?

«Kore, tesoro, alza un po' la testa.» una voce gentile mi giunse all'orecchio.

Feci come mia madre mi aveva chiesto e puntai lo sguardo sulle nuvole appena sopra l'orizzonte, impiegate in placidi spostamenti verso nord-ovest. Mi abbandonai alle mani delicate che con attenzione intrecciavano i miei capelli ramati, incastrandovi piccoli gelsomini candidi e profumati che una volta inseriti nelle ciocche iniziavano a ramificarsi autonomamente. Tuttavia ad un tratto mi venne spontaneo accostare la voce di Demetra, limpida e soave, con quella del dio che sovrastava prepotentemente sui miei pensieri. Ricordai il modo in cui pronunciò il mio nome, ben diverso da come aveva appena fatto lei. Il suo tono profondo, ruvido, cupo, era rimasto inciso nel mio timpano, impossibile da dimenticare. E con un po' di concentrazione riuscivo ancora a percepire la sua mano sulle mie dita, quasi come se a stringermi fosse stato il fuoco stesso del Tartaro, lasciandomi così un marchio indelebile sulla pelle.

«Più tardi ti andrebbe di accompagnarmi?» chiese la dea alle mie spalle.
«Dove?»
«A sud dell'isola. C'è un piccolo villaggio di contadini a cui è appassito quasi tutto il raccolto. Siamo ancora in tempo per evitare che muoiano di fame.» spiegò.
«Mhm, va bene.» risposi distrattamente.

Forse dedicarmi un po' alle piante mi avrebbe aiutato a rilassarmi. Anche se dubitavo ci fosse granché da fare, perché lì sulla piccola isola di Eubea non c'erano orti molto vasti: il territorio roccioso era popolato principalmente da ulivi, cipressi e bassi arbusti.

Anche una vegetazione semplice come quella, però, poteva pur sempre riservare qualche sorpresa. E infatti spalancai gli occhi quando vidi in lontananza una macchia nera tra il tenue verde degli alberi. Istintivamente mi sporsi appena per cercare di capire cosa fosse e sentii le mani di mia madre fermarsi, probabilmente anche lei aveva alzato la testa.

«Tranquilla, è solo un cavallo.» disse dopo un po'.

Aveva ragione: quello di fronte a noi era un grosso stallone dal lucente manto nero. Rilassai le spalle, forse un po' delusa, forse un po' sollevata.

Lα Prιmαvεrα dι AδεDove le storie prendono vita. Scoprilo ora