Sguardi rapidi, controllando di aver tutto con sé. Un tintinnio di un mazzo di chiavi, intento a girare chiudendo una serratura, segnava definitivamente quello che stava per succedere. Ovattato il rumore arrivava alle sue orecchie facendosi sempre più nitido, chiaro, portandolo piano alla realtà.
Lascio questa città contento, ma allo stesso tempo con il cuore palpitante in gola. Io so cosa provo. L'ho capito.
Ma se non fosse lo stesso da parte sua?
Bagagli trascinati. Naso arrossato, accarezzato dal gelido vento di quella mattina ad Edimburgo.
Un taxi prenotato a suo nome lo stava ora riscaldando, rincuorando, direzionato verso la sua precisa meta.
Dopo la mia partenza non ne abbiamo parlato più. Ma avremmo dovuto farlo? Si chiacchierava sempre del più e del meno. Le solite conversazioni di sempre. Come se non fossi partito. Come se non fosse cambiato nulla. Già... come se non fosse cambiato nulla.
Dal finestrino qualche lieve raggio di sole gli colpiva il viso. Tra il suo tepore e la vista che gli scorreva sotto gli occhi come una vecchia pellicola, la mente viaggiava.
Ho scoperto esser così difficile trovare qualcuno come lui. Non ho... non ho nessun altra persona in mente se non lui! Le emozioni provate... le sensazioni avvertite... solo lui è stato capace di darmele. Di farmele sentire.
Un saluto con un sorriso sforzato.
Di nuovo quel pungente vento, a tratti ancor più ghiacciato dopo il confortevole calore della vettura. Passi incerti verso un enorme ambiente.
Mentirei a me stesso dicendo di non averlo sognato. Dicendo di non aver vissuto ancora quei momenti nei miei sogni. O dovrei dire incubi?
La mancanza, l'assenza, il ricordo, facevano si che fossero incubi. Non bei sogni.
«Signore, la sua carta d'imbarco.»
Controlli superati.
Altrettanti passi incerti salivano le scale dell'aereo. Non si torna più indietro.
Ho lottato con tutto me stesso contro questi sentimenti. Più grandi di me mi schiacciavano. Come un muro insormontabile che mi si parava davanti. Ho tentato, ancora e ancora, di scalarlo. Con le mani stanche e sanguinanti io ci ho provato. Ripetendomi: «sto bene», «va tutto bene», «è tutto okay». Era il mio unico punto d'appoggio. L'unico punto di sosta in quel muro invalicabile.
Le nuvole danzavano nell'aere. Soffici. Sembran zucchero filato. Minuscolo il paesaggio sottostante.
E se lui avesse dimenticato tutto?
Se fosse successo tutto per puro caso?
La mia è la paura di un rifiuto?
Magari il Destino non c'entra ed è solo stato davvero un evento casuale.
L'immensità del cobalto cielo dava libero sfogo d'uscita a tutti quei pensieri che gli opprimevano la mente. Infinito era in grado di sopportarli. Di supportarlo lasciandolo parlare.
Non so. Non conosco. Non capisco. L'unica certezza è quello che sento dentro di me. Per questo ho una tremenda voglia di vederlo. Ma una tremenda paura mi blocca completamente l'entusiasmo.
Bloccato lì, nel mezzo. In un limbo senza apparente via di scampo. Una miriade di pensieri in testa ed un cuore in petto che ormai non era più solo suo.
Le avvertenze della hostess. Il lieve ma brusco poggiare delle ruote sulla pista. La fila, un po' lenta, verso l'uscita. Una volta scese le scale guardò in cielo. Un magnifico color oro illuminava il firmamento pronto a lasciar spazio alle tenebre incombenti. Le giornate corte d'inverno si erano ormai palesate. Sotto quella particolare luce aurea, a tratti spettrale, entrò nell'aeroporto di Bologna. Pronto all'incontro. Pronto a rivederli.
Cesare, Nelson e Francesco, si erano offerti di passarlo a prendere. Così eran già lì, fuori dal gate ad aspettarlo. Entusiasti e tranquilli. L'apparenza era quella per tutti... forse.
«Eccolo!» Affermò urlante Nelson.
Alzando la testa, spostandosi nervosamente il ciuffo allungatosi in quei mesi, sorrise continuando a camminare verso di loro.
Sono tre mesi che non lo vedo.
«Ciao Fede.» Lo strinse in un abbraccio continuando a non tener la voce bassa.
Tre mesi dell'accaduto.
«Ciao Fedino.» Lo strinse Francesco questa volta.
Tre mesi che non lo guardo negli occhi.
Mancava solo lui.
«Ciao Fede.» Gli sussurrò all'orecchio stringendolo forte. Forse più del dovuto.
Tre mesi che non sentivo il tono della sua voce dal vivo.
Tre mesi che non lo abbracciavo.
«Ciao Cesu.» Sussurrò a sua volta ad occhi chiusi godendosi il momento.
Tre mesi che non sentivo le sue braccia avvolgermi. Quel suo calore scaldarmi corpo e anima. Quella stretta confortevole da cui esco sempre a malavoglia.
«...è andato bene il volo?» Parlò Nelson, quasi come se volesse rompere quel momento che stava assumendo un non so che di imbarazzante.
«Sì, sì, tutto apposto. Neanche una turbolenza.» Rispose dopo essersi allontanato da lui.
«Vuoi una mano con la valigia?»
«No grazie, ce la faccio.»
Uscendo dall'aereoporto si dirigevano verso la macchina di Cesare.
«Stasera si festeggia. Vedi di non fare storie e di non inventare scuse.» Disse quest'ultimo dopo avergli avvolto un braccio lungo le spalle.
«Non posso essere stanco dopo il viaggio?»
«No!» Fermo, deciso, replicò prendendogli la valigia posizionandola nel bagagliaio.
«Vaffanculo Cesare.» Ridendo gli diede uno spintone.
Era così bella quella loro normalità. Un ritorno dopo tempo d'assenza.
Un ritorno nella bellissina città natale. Un ritorno tra posti familiari.
Un ritorno tra amici speciali.
«Questa sera si festeggia.» Ripeté in macchina, ma guardando una sola persona dallo specchietto retrovisore.
«Ovvio. Andiamo a mangiare fuori.»
«Ma è possibile che pensi solo al cibo Nelson?»
«Ma sei tornato dopo tre mesi Fede. Possiamo mangiare a casa secondo te? Certo che no.»
«Non ha tutti i torti dai.» Lo spalleggiava Francesco da davanti.
«Andiamo in un bel pub. Roba buona. Birrettina. Un po' di musica. Che dite?» Propose l'ultimo ad aver parlato.
«Perfetto», fulmineo rispose Cesare, «magari poi facciamo un giro in centro. Andiamo in qualche locale... insomma. Facciamo serata dai!»
I presenti erano leggermente sorpresi. Cesare non era il tipo da "serata", da "ballare per locali" e cose di questo genere.
«Beh, direi che è il minimo visto che ci sono io ora.» Spostò l'attenzione su di sé con successo.
Presi tutti dall'entusiasmo generale, frenetici organizzarono tutto al volo senza tempi di riflessioni o pensieri. Ed il tempo che aveva segnato lo spegnersi del sole non aveva affatto aiutato.
Una rapida doccia e un cambio pulito ed erano tutti di nuovo in macchina con un passeggero in più: Frank. Ad un'uscita, ed una bevuta, non poteva assolutamente mancare. Stavolta Nelson aveva preso la macchina. Era l'unico che poteva averla per la sera. Francesco, che non voleva mai pagare, aveva convinto Federico ad offrire un aperitivo per il suo arrivo. Una sorta di cadeau di ben tornato. Lo scroccone vinse e così la prima tappa in centro fu proprio un normale bar. Uno spritz, e tre quarti d'ora dopo, ed erano a fare la fila per un noto pub dove si mangiava benissimo. La qualità delle materie prime era ottima. Ed eccelso era il modo che avevano di cucinare. Preparavano dei panini sublimi.
Una mezz'ora ad aspettare ed erano finalmente all'interno del locale. Rustico. Popolare. Un vero Pub con la "P" maiuscola.
In macchina c'era davvero un gran casino. Grandi risate. Grandi urla. Lo spritz, le due birre medie (da 500ml) e l'amaro finale dopo un piccolo dolce iniziavano a farsi un po' sentire per tutti quanti. A tutti tranne che a Nelson. Purtroppo non era al massimo delle forze quella sera per un lieve disturbo allo stomaco accusato di colpo. Ma non voleva rovinare la bella serata, il ritorno di Federico, così decise di mangiare leggero e non bere alcolici. La cosa si rivelò preziosa perché nessuno degli altri quattro era in grado di guidare. Non proprio per la sobrietà, reggevano ancora, ma se fossero stati fermati dalle forze dell'ordine sarebbe stato un vero guaio. Ma erano ragazzi coscienziosi e nessuno di loro si sarebbe messo alla guida in quelle condizioni anche se potevano farcela. Prevenire è meglio che curare!
La permanenza alla prossima destinazione, una sorta di discoteca, non fu duratura. Erano abbastanza annoiati dalla musica e dalla serata organizzata così, dopo aver bevuto il cocktail per la consumazione obbligatoria (per Nelson un Coca-Cola), si diressero verso l'uscita. Consegnato il cartoncino colorato al buttafuori, erano ufficialmente all'esterno del locale.
Un amico della compagnia consigliò il nuovo locale dove passare la serata. Il secondo tentativo andò a segno. Unendosi a loro erano lì in coda per entrare. Ma fortunatamente, a differenza della cena, la fila scorreva più rapidamente.
«Un ritorno col botto!» Gli urlò Cesare, anche se lo aveva accanto, nell'orecchio.
L'unico modo per sentirsi era urlare. La musica pompava alta nelle casse scatenando i presenti in folli danze e movimenti ambigui di cui si sarebbero sicuramente pentiti al risveglio il giorno dopo la sbronza.
«Le cose o si fanno bene o non si fanno, no? È la prima sera che stiamo tutti di nuovo insieme. Ci sta. E poi sei tu ad aver detto che bisognava festeggiare. Quindi non rompere e bevi!» Gli disse Federico urlando sbiascicando qualche parola.
La frase di Cesare era dovuta al fatto che da una PR del locale avevano prenotato un privè. Ovvero un tavolo riservato in una zona del locale, di solito rialzata, dove le persone che comunemente ballano in pista non possono venire a disturbarti. A meno che non sia tu a voler qualcuno, ad invitare qualcuno. Al tavolo poi, di solito, vengono portate varie bottiglie di alcolici, secchielli scenografici ricolmi di alcol e tante cannucce da cui poter bere, champagne... insomma, un bel po' di alcol!
Si lasciarono andare tutti quanti alla tanto convivialità che per mesi era cessata. Nonostante fosse passato del tempo erano tutti gli stessi.
Tra luci ad intermittenza e timpani stonati dal rumore. Tra scherzi, giochi, per mancanza dell'assenza, della presenza di troppo alcol che il fegato faceva fatica a smaltire d'un colpo, passarono una meravigliosa serata all'insegna del puro divertimento.
Sbronzi uno più dell'altro si apprestavano ad uscire dal locale ed iniziarono subito i problemi. L'ultimo che si era aggiunto al gruppo era completamente andato. A momenti avrebbero dovuto portarlo in braccio per quanto si ostinava nel voler camminare. Era troppo tardi per chiamare qualche suo contatto per venirlo a prendere, così Nelson decise che era meglio portarlo a casa e aiutarlo almeno ad entrarci. Il problema consisteva nei posti dell'auto. In totale erano sei. In macchina potevano starci in cinque. Non era di certo il caso di rischiare con a legge. A maggior ragione per le condizioni pessime in cui si ritrovavano.
«E ora come si fa?» Cercava di ragionare a voce alta Nelson.
Era come esser solo. Nessuno degli altri era d'aiuto. Ognuno era impegnato a reggersi in piedi cercando di non chiudere gli occhi.
«Facciamo una cosa. Io lo porto a casa», indicava il cadavere steso nei sedili posteriori, «porto anche Frank e Cesare. Poi passo a prendere voi due che nel frattempo aspettate qui immobili.»
L'idea di dover lasciare qualcuno in quello stato da solo, non lo entusiasmava moltissimo. Aveva pensato che almeno in due il ragionamento poteva star su. Doveva solo lasciarli a casa il più rapidamente possibile e poi tornare a prendere gli altri. Si poteva fare. Si doveva fare era meglio dire. Era l'unica idea saltata fuori dopo quasi dieci minuti passati a pensare. Cercare di risolvere una problematica con urla, risate, discorsi senza senso e l'idea di avere qualcuno collassato in macchina, non era affatto semplice.
«Io voglio stare con Federico!» Urlò all'improvviso, quando ormai Nelson si era convinto del successo del piano.
«Dai Cesare... non fare storie ed entra in macchina. Vi vedete domani.» Saturo, al limite, sbuffava.
Avere a che fare con soggetti mutevoli e assillanti può essere snervante. Ci vuole molta pazienza.
«Ma io vado a casa da solo. Non ti preoccupare.» Ad occhi chiusi, in un espressione crucciata nel voler dire che andasse tutto bene, si pronunciò dal nulla Federico.
Nelson aveva le mani nei capelli.
«Ma dove vai? Io vengo con te.» Lo fermò Cesare da un braccio.
«Tonno, Frank, andate in macchina e date uno sguardo a quell'altro. Ora arrivo.» Disse per poi scattare verso gli altri due che, testardi, si erano incamminati di già.
«Hey, ma dove andate!?»
«Nelson... non... non ci entriamo in macchina... poi io sto bene e casa mia non è lontanissima da... da qui. Ce la faccio a camminare. Vado... vado da solo. Tu vai con lui Cesare.»
Impegnato a risolvere il problema dei posti in macchina, Nelson non aveva calcolato questo piccolo, grande, particolare. Allontanandosi leggermente dal centro si erano inconsapevolmente avvicinati alla zona in cui abitava Federico. In una decina di minuti a passo svelto e si poteva essere tranquillamente a casa sua.
«Ma non mi fido a lasciar-»
«No. Io non vado con Nelson... io vengo con te.»
«Ma non potete aspettare dieci minuti davanti al locale?» Urlò ormai nel panico, non sapeva cosa fare o dire.
«Ci vediamo domani Nelson.» Urlò Cesare di rimando ormai lontano da lui.
«Chiamatemi quando arrivate!»
Impotente non poteva fare più nulla per fargli cambiare idea. Rassegnato e preoccupato tornò alla sua vettura pronto a riportare gli altri a casa.
Come un robot con un navigatore ed una meta prestabilita, camminavano spediti per le vie della strada illuminante dai lampioni. Una via percorsa per una vita intera. Rischiando malamente di inciampare, scaturendo solo un enorme risata incontrollata ogni volta, dopo quindici minuti erano arrivati davanti il portone principale del palazzo. Quelle dannate chiavi sembravano una saponetta che continuava a scivolare a terra e a non voler entrare nella serratura.
«Zitto Cesare!» Cercava invano di farlo smettere di ridere, ma era lui stesso il primo a farlo.
«Ma cos'è questo rumore?»
«Aspetta... ma che diavolo è?»
«Ma è il tuo telefono! Ti stanno chiamando Fede.» Le lacrime agli occhi per il troppo ridere.
«Che cazzo vuoi Nelson?» Rideva ed era arrabbiato allo stesso tempo, ma finalmente la chiave entrò.
«Sì... siamo entrati ora nel palazzo», Nelson sentì la porta chiudersi, «sì... Cesare stai fermo... sì, tranquillo. A domani.» Chiuse la telefonata Nelson stesso.
Federico non ce la faceva. Stava ridendo così tanto da accasciarsi su di un gradino delle scale. Cesare era caduto prendendo male le misure per salire uno scalino. Con la punta della scarpa aveva beccato proprio il suo bordo, inciampando e perdendo l'equilibrio.
«Dai... alzati.» Trattenendo le risate in gola fuoriusciva uno stranissimo suono.
«Sveglieremo tutti quanti... sbrigati ad alzarti.»
Parlava tanto ma non gli dava mica una mano.
La tromba delle scale, in quel silenzio della notte inoltrata, tecnicamente mattino, aumentava qualsiasi suono rendendolo il doppio più alto. Erano stati fortunati a non ricevere nessun richiamo dopo l'ulteriore baccano fatto per aprire la porta effettiva di casa.#MySpace
Questo capitolo mi piace particolarmente, specialmente l'inizio con i pensieri di Federico. Mi è piaciuto molto scriverlo e altrettanto rileggerlo dopo tempo per correggerlo e pubblicarlo.
Dopo ben tre mesi si sono finalmente riuniti. Ma tutto deve ancora succedere!
Soli a casa di Federico. Ubriachi. Con alle spalle un trascorso di qualcosa che è successo.
Come si comporteranno adesso?
Cosa potrà succedere?
Vi dico solo che questo è ufficialmente il penultimo capitolo e che il prossimo... beh, come dire... diciamo che è leggermente spinto. Leggermente diverso. Nulla del genere è stato scritto prima all'interno di questa storia.Spero tanto che questo capitolo vi sia piaciuto. Non dimenticatevi di farmelo sapere con una stellina e/o un commento.
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A Luci Spente || Cesare x Federico || Space Valley
FanfictionPuò sembrare spaventoso il buio ma in realtà se lo ascolti con il suo manto ti abbraccia, ti avvolge, e ti fa da scudo da tutto quello che la luce può rivelare. Lui non mostra, nasconde. Non giudica, capisce. Al buio non si può vedere... e a luci sp...