La passeggiata sul serpente

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Era seduto sul letto, a gambe incrociate, a fissare il vuoto. Si alzò di scatto e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza; non c'era abbastanza spazio: aveva bisogno di fare passi lunghi e decisi, ma si trovava davanti al muro sempre troppo presto. Si sedette sulla sedia davanti alla scrivania: per fortuna era una sedia girevole, altrimenti sarebbe stata una tortura stare fermo lì senza poter girare su se stesso, seguendo il moto dei suoi pensieri. Dopo qualche scatto della sedia, si accorse della macchina fotografica che aveva lasciato appoggiata su uno scaffale qualche tempo prima. La fissò dubbioso per una manciata di secondi, poi guardò l'ora: l'una e venti. Aveva tutta la notte davanti.

Saltò giù dalla sedia e con pochi movimenti veloci infilò nello zaino la macchina fotografica, le chiavi del lucchetto della bici e una felpa. Uscì di casa con la stessa fretta di chi sta scappando da qualcosa, prese la bici e si avviò a pedalate veloci verso l'arco del Meloncello. Quando finalmente arrivò a destinazione, delle goccioline di sudore e inquietudine gli attraversavano la fronte; non le asciugò nemmeno: erano la prova che quella pedalata l'avesse portato nel posto giusto.

Cominciò a risalire il portico di San Luca a grandi passi. Sapeva esattamente dove l'avrebbe portato quella salita, l'aveva percorsa tante volte, ma mai così: qualche volta l'aveva fatta correndo, altre in compagnia, con calma, senza mai dare peso alla fatica che faceva per arrivare fino in cima né a quello che lo circondava durante il tragitto. Quella sera camminava a testa bassa, guardando le sue gambe muoversi freneticamente, solo per essere sicuro che una parte di lui riuscisse ancora a muoversi.

Poi a un tratto sollevò lo sguardo e si trovò davanti qualcosa che gli sembrava di non essere mai riuscito a vedere: quella strada che aveva percorso tante volte era improvvisamente diventata un tunnel illuminato nella notte, placidamente appoggiato sui colli di Bologna come un enorme serpente addormentato.

Interruppe la sua scalata piena di rabbia e per un po' restò in piedi a metà del percorso, mentre riprendeva fiato. Guardava quella salita, cercando di cogliere cosa avesse di diverso dalle altre volte. Tirò fuori dallo zaino la macchina fotografica e le scattò una foto per imprigionare quel dettaglio che la rendeva così diversa e che in quel momento non riusciva a cogliere, ma solo a sentire.

Riprese la sua salita, questa volta più lentamente, per sentire il vento che attraversava i portici e per gettare qualche occhiata alla città sottostante che si era addormentata senza di lui. Le gambe andavano da sole senza bisogno che le tenesse d'occhio, lasciandogli la possibilità di guardare dritto davanti a sé per vedere la cupola di San Luca avvicinarsi sempre di più. Quando arrivò in cima guardò quella gigantesca chiesa illuminata come un faro nella notte; si voltò verso quel portico infinito, che da quella prospettiva aveva tanto l'aria di una dolce discesa negli inferi della normalità, e in un attimo si rese conto che era per percorrere la salita e arrivare in cima con il fiatone che era uscito di casa quella notte.

Tempo dopo, riguardando quella fotografia scattata senza un perché, capì che senza saperlo aveva catturato il suo futuro: per lui, la dolorosa scoperta di sé non era stato come cadere senza paracadute nel buio. Per lui, quella scoperta era stata molto più simile a una lenta camminata per conquistare la vetta.


(Testo a cura di Matilde Catelli, mentre la fotografia è stata scattata dal personaggio del suo racconto)

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