Parte settima

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25 Fantasiosi erranti con magie suggestionanti.

Quella mattina la forza laboriosa del vento scacciò via le nuvole e le loro cromature fuligginose. Man mano che il cinereo si diradava su Mosca, gli albori del mattino sfolgoravano anticipando l'ascesa della stella diurna. Una volante della polizia con il lampeggiante spento e la carrozzeria umettata dalla rugiada sostò innanzi al locale di Ruslan. L'agente che sedeva sul lato passeggeri abbassò il finestrino dell'auto affinché la condensa sul vetro non gl'impedisse di scrutare all'esterno. L'uomo in divisa osservò l'ingresso del locale mentre il collega alla guida si sporse col busto verso il volante per osservare anch'esso fuori dall'auto. - Sì, è proprio qui. – Confermò l'agente del lato passeggeri aprendo la portiera – Bene, tu resta in macchina, mentre io andrò a verificare la situazione. –

Sui miei occhi arrossati e lievemente turgidi si rispecchiava il retaggio di una notte trascorsa fra l'angoscia delle lacrime. Mi sentivo particolarmente confusa quella mattina, se ripensavo alle ore precedenti, emozioni antitetiche, e perciò contrastanti, m'impedivano di mantenere un corretto equilibrio emotivo. La notte appena spentasi fu la più traumatica che ebbi mai vissuto. La raccapricciante paura che Ivan potesse raggiungermi al locale di Ruslan e ricominciare a giocare con il mio corpo m'impedì di chiudere occhio a lungo. Il ricordo orripilante di ciò che m'aveva fatto mi spinse a detestare perfino la mia stessa carne, a nutrire la necessità di dovermene separare, e l'impossibilità di compiere ciò, stava quasi per condurmi alla follia. E mi parve di rivivere le notti trascorse alla Liden, la clinica privata newyorchese in cui mia zia m'aveva reclusa a seguito del mio tentativo di suicidio. Ma lì, a ogni mio singhiozzo, a ogni mio lamento, c'era sempre un' infermiera di turno che con fare assonnato mi somministrava una buona dose di benzodiazepine, e auspicandosi che sortissero un rapido effetto tornava a sonnecchiare indifferente. Fino alla scorsa notte, solo l'inibizione del sistema nervoso centrale dovuta agli ansiolitici m'aveva sottratta alle crisi di panico, quando mandavo giù una di quelle pasticche della dimensione di un'arachide, mi abbandonavo a una sorta d'inerzia, apparivo placida e distesa, innocuamente mite. Forse, i medici della Liden erano persuasi che somministrandomi quelle bizzarre noccioline potevano lenire una sofferenza, o forse, sapevano bene che il principio attivo di quei farmaci non faceva altro che privarmi della forza di reagire, di dimenarmi e piangere fino a sfinimento. Gli effetti sparivano, sì, sparivano in fretta, ma la causa rimaneva lì, affogata dentro me, in cerca di un percorso alternativo ove incanalare la propria foga. Astrel fu la prima persona in assoluto a insegnarmi che la misteriosa potenza dell'amore potesse dissolvere qualsiasi dolore come cenere al vento. Alla mia paura cieca e irrazionale, scatenata dal solo pensiero che Ivan potesse tornare, Astrel non aveva risposto adagiandomi una pasticca sul palmo della mano e offrendomi un bicchiere ricolmo d'acqua, no. Lei fece del suo copro una coperta che soffice mi avvolse tutta, dal suo respiro ricavò nutrimento per sfamare le mie labbra smaniose, e dai suoi battiti quieti ricavò la mite melodia che condusse il mio cuore verso la serenità. Fu così che riuscii ad assopirmi per qualche ora sfumando i miei dolori nel sonno, ma il giorno appena giunto mi reclamò al cospetto della vita, e mentre Orfeo e i suoi sollievi dipartivano alla vista di Horus, io cercai in lei un po' di tenacia. Così, rimanendo seduta su quel letto sghembo in mezzo alla cantina, la osservavo muoversi intorno a me e con gli occhi l'amavo. Com'era delizioso il suo corpo appena fuori dalla doccia, tripudiante di goccioline e fasciato in un succinto asciugamani che ne celava appena il seno. E quanto ardore suscitava in me quel tocco rapido di gloss che rendeva lucide e invitanti le sue labbra, così come il pizzo rosa del suo slip. Amavo tutto di lei, l'amavo fin nel profondo dell'essenza, oltre l'anima, mai, mai avrei concesso a qualcuno di strapparmela via, mai!

- Se non lo sapessi già, penserei che ti piaccio. – Mi motteggiò Astrel accortasi che la fissavo già da un po'.

- Infatti è così, e questa mattina sei di un radioso che proprio non riesco a dissuadere gli occhi.- Replicai, protendendo le braccia verso lei per manifestare il mio inappagabile desiderio di sentirla vicina. Lei mi sorrise amabilmente e lieta di soddisfare la mia richiesta si avvicinò, ma fu in quell'istante che un tumulto alla porta ci fece trabalzare d'improvviso. L'uscio si spalancò a seguito di un'energica spinta, la caduca lampadina che pendeva dal tetto oscillò sulle nostre teste. Mi volsi d'impeto verso l'ingresso e scorsi un uomo in divisa da poliziotto, fregiato dallo stemma nazionale sul vistoso colbacco nero. Non si premurò di bussare alla porta, né di accennare un saluto cortese innanzi allo stipite, ma procedette lesto irrompendo nella cantina. Marciò fino al centro della stanza, impettito, quasi incarnasse una carica militare ai vertici della gerarchia.

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