Prologo

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«Lo spreco della vita si ha nell'amore che non si è saputo dare, nel potere che non si è potuto utilizzare. Nell'egoistica prudenza che ci ha
impedito di rischiare e che, evitandoci un dispiacere, ci ha fatto mancare la felicità. »
Oscar Wilde

Ed è come tornare a casa dopo tanto tempo, quando non sai dove mettere le mani, dove andare a ricercare qualcosa di familiare, che ti faccia sentire a casa. Hai solo voglia di lanciarti sul letto, scrutare attentamente il soffitto e avere la certezza di non dover più partire. Non so bene se sia questo ciò che Londra ti trasmette, dopo un paio d'anni... O se è il cielo grigio, quell'aria umida, i nuvoloni e quella strana malinconia che si prova a stare piantati in mezzo alla strada, ad aspettare che qualcuno ti rivolga la parola. Ma forse è meglio così, quando nessuno ti conosce, si ricorda di te, di quando sei caduta dritta sulla torta per il tuo ottavo compleanno. Quando hai un punto da cui ripartire, un nuovo inizio, una nuova pagina di diario. Quando ti ripeti che la tua vita cambierà come sconvolta da una raffica di vento, ma alla fine temi che rimanga inalterata. Perché, in fondo, l'idea di dover rimanere ancora sola in casa, a leggere libri, con la schiena appoggiata contro il letto e la pioggia che si abbatte violenta sulle finestre ti terrorizza. Con quelle pareti sempre bianche, immacolate, come un foglio da riempire, come la matita bianca costantemente abbandonata nell'astuccio perché inutile. Come una spia luminosa che si manifesta, incessante, con il solo scopo di ricordati che c'è un vuoto da colmare.
Non chiedevo molto, solo qualcuno, qualcuno con cui parlare, qualcuno che capisse, con cui trascorrere le giornate al parco o chiusi in casa, davanti alla televisione, sotto il letto, a dichiarare guerra al mondo intero, a mangiare biscotti al cioccolato. Eppure, quando qualcuno è strano come me, si ritrova in mezzo alla strada, con l'impermeabile scuro, la valigia, abbandonata da tutti, con il vento che ti annoda i capelli, a pregare che qualcuno ti piombi davanti e ti salvi da tutto. Ma dopotutto non era scientificamente possibile che qualcuno fosse disposto ad ascoltare ogni mio singolo brontolio, parlare di libri per ore e ore o sedersi accanto a me, vicino al letto a scrutarmi attentamente, provando a capirci qualcosa. Avevo bisogno di qualcuno che si scagliasse contro tutti i muri che avevo alzato, a costo di farsi male. Qualcuno che ogni tanto facesse qualche strana promessa a una ragazzina dai capelli biondi e in disordine, aggrovigliati come i suoi pensieri, dagli occhi color del mare e che ricercasse costellazioni tra le lentiggini che le punteggiavano il volto, come schizzi di tempera.
Bastava solo la voce squillante di mia madre a risvegliarmi dai miei pensieri, come sempre, come il campanello della bicicletta che sembra urlarti contro Spostati o t'investo mentre hai gli auricolari nelle orecchie. Quella donna forte, sempre elegante, che avanzava verso casa... La nuova casa. Sempre con quell'aria sicura di sé, padrona del mondo, mentre io la seguivo senza protestare, ignorando la sua euforia, i discorsi sul terrazzo, sul giardino...
«Dov'è finito tutto il tuo entusiasmo?» chiese lei, portandosi le mani sui fianchi e scrutandomi con aria di rimprovero.
Alzai gli occhi al cancello di ferro e poi alla nuova casa, al terrazzo, al giardino, a quel colore ocra malinconico e mi lasciai sfuggire un sospiro.
«Vedrai che ti farai dei nuovi amici, laggiù...»
Annuii poco convinta, mentre mia madre si avviava trascinandosi dietro la valigia. Ma dopotutto cosa potevano saperne i genitori di come si sentiva una sedicenne completamente sola, in una città immensa come Londra. Per loro è troppo semplice, come se fossimo tutti destinati a rimanere soli. Magari sposati, in piazze che brulicavano costantemente di gente, ma soli, terribilmente e costantemente soli. Soprattutto per mia madre, troppo impegnata ad aprire cassetti su cassetti, senza darmi nemmeno il tempo di fare mente locale su ciò che avevo appena visto, scoprendo tutti i mobili antichi, lanciando i veli a terra come tanti fantasmi che s'infrangevano al suolo e scomparivano, come se stesse scartando dei regali. Lei era così, con la sua passione per l'antico, con quella convinzione ben radicata che si potesse risolvere tutto. E poi c'era mio padre, quello schivo, disordinato, ma sempre di buon umore, mentre scendeva le scale e si lasciava rimproverare da mia madre per non averla aiutata a portare le valige. Quei due erano completamente l'opposto, lui disordinato, lei ordinata. Lui che conservava tutto, come me, lei che ogni anno doveva buttare qualcosa, facendomi sempre sparire frammenti di ricordi dalla camera da letto... Per questo avevo imparato a nascondere bene i sopravvissuti.
Mia madre sbucò dalla cucina raccogliendo i capelli castani in uno chignon, cosa che faceva ogni giorno, lasciandoci scivolare le forcine. L'avevo vista farlo così tante volte, ma ancora non avevo imparato, i miei capelli non si lasciavano domare tanto facilmente.
«Allora, che ne pensi? Non è meravigliosa?» chiese lei, porgendomi lo scatolone.
«Perché non vai a vedere la tua camera? Sali le scale, a sinistra, in fondo al corridoio, vicino al bagno.» continuò, accennandomi un sorriso rincuorante.
Strinsi lo scatolone e iniziai a salire le scale, inciampando immediatamente, guardandomi intorno alla ricerca della mia camera che scoprii essere abbastanza spaziosa, con una bella finestra sul giardino. Scrutai attentamente il letto, addossato al muro, con degli strani veli alle estremità che lo facevano sembrare tanto un baldacchino, un armadio, la scrivania ancora da mettere in disordine e le due librerie da riempire, le pareti immacolate da punteggiare di fotografie e ritagli di giornale. Aprii lo scatolone e mi misi all'opera, sistemando i libri in ordine alfabetico, le fotografie di quando ero bambina e le citazioni tra cui Carpe diem e Odi et amo che avevo realizzato trasformando pagine di riviste in lettere dell'alfabeto. Era la prima volta che camera mia risultava così graziosa e quasi colorata, uno specchio di ciò che ero... Mi guardavo intorno, soddisfatta, senza quasi accorgermi di mia madre che entrava per portarmi la divisa della scuola, ritrovata da poco. Sistemare una stanza è un gran lavoro e porta via fin troppo tempo, soprattutto se non sei mai sicuro di ciò che hai appena realizzato... Sistemate le cose più importanti, mi abbandonai sul letto, esausta, dopo aver preso l'Mp3, pronta a viziare i miei timpani con le mie canzoni preferite che trattavano di mondi sconosciuti e angeli custodi. Canticchiai il testo, sperando che anche per me ci fosse un qualche angelo... Non esclusivamente con delle ali, un'aureola, una tunica... Solo qualcuno che mi sorvegliasse. Un giorno mi tatuerò due grandi ali d'angelo sulla schiena e volerò via, pensai mentre le parole della canzone mi rimbombavano in testa.
Era meraviglioso restare così, in bilico, con il cervello in stand- by, senza pensare a nulla, alla nuova scuola, alle lezioni, ai compiti. La musica mi trasmetteva forza, mi rendeva libera, in grado di scrivere ciò che volevo, anche se si trattava esclusivamente di pagine di diario. C'erano quelle canzoni che ti riportavano alla mente ricordi, che rischiavano di farti scoppiare in lacrime o che ti salvavano dalle tue paure.
Improvvisamente avvertii qualcosa avvicinarsi e sorrisi, credendo che i miei genitori fossero venuti a tendermi un agguato. Impossibile, però, che riuscissi a sentire dei passi vista la musica a tutto volume... Eppure percepivo ogni singolo e lieve movimento. Sesto senso femminile? Mi tirai su di scatto aprendo gli occhi alla ricerca di una figura che, in realtà, non c'era. Scrutai attentamente la porta e sospirai. Quando ero piccola un bambino, per terrorizzarmi, mi aveva confidato che nelle case i divani o i letti non danno quasi mai le spalle alla porta: chi vi abitava avrebbe rischiato di impazzire credendo che qualcosa o qualcuno fosse sempre pronto a coglierlo di sorpresa. Allontanai le cuffie, ma probabilmente avevo immaginato tutto. Sentii qualcos'altro, però, qualcosa di ancora più strano mentre mi lasciai cadere a peso morto sul materasso. Qualcosa di caldo che mi sfiorava la guancia, come un raggio di sole, e che s'intrufolava sempre più in profondità, come se stesse penetrando perfino nelle ossa; rabbrividii, scostandomi, nonostante la sensazione fosse quasi piacevole, ipnotica, come una carezza effimera e delicata. O meglio allontanai quel qualcosa allungando la mano, come se un peso stesse gravando su di me... Il peso di qualcuno. Una spinta data all'aria. Detto così sembrava ancora più stupido, ma quel qualcosa sparì ancora prima di essere scostato. Tutto sembrò scivolare verso il basso per poi nascondersi sotto il letto, penetrare nel legno, impregnato di quel calore pericoloso, e tornarsene sotto terra.
Rabbrividii involontariamente e scrollai le spalle ritrovandomi a cercare sotto il letto un mostro inesistente, come una bambina prima di andarsene a dormire. E, fortunatamente, quel qualcosa se n'era rimasto sotto terra o magari nell'armadio che non avevo il coraggio di aprire. Adoravo il sovrannaturale... Angeli, spiriti e tutto il resto, ma mancavano solo i biglietti con su scritto Questa casa è infestata, andatevene a rendere ancora più disastrosa la mia vita.
Mia madre commentò l'avvenimento ricorrendo a strani discorsi su spiriti e fantasmi, per intimidirmi- era un asso con le storie dell'orrore- mentre mio padre restava con gli occhi scuri fissi sulle sue carte senza proferir parola, come sempre dopotutto.

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