6 - Una memoria da preservare

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Con la promessa di tornare a farci visita di cordoglio, Damiano ci lasciò in mezzo a una Piazza Margherita deserta, il cui silenzio era pizzicato dal gorgheggio della fontana pubblica rimasta aperta, circondata da molti recipienti vuoti, abbandonati dalla gente fuggita via in cerca di rifugio. Era raro che a un aereo ne seguisse un secondo o addirittura un terzo. Tutt'altro che rara la paura che si verificassero eccezioni. Chi poteva, rientrava nella propria casa, altrimenti si riparava in chiesa. Infatti lì ritrovammo il grosso delle anime in pena, tutte raccolte in preghiera per invocare la pace.

Don D'Arcento non lesinò accoglienza. Intuì che doveva esserci un motivo grave che giustificasse la nostra presenza. In mezzo alle litanie delle donne inginocchiate a capo chino, estese l'invito a unirci alle orazioni, contento di vedere dei giovani a presenziare nella casa del Signore.

«Nostro fratello Gregorio è morto!» Lo liquidai spiccio e Nando mi ammonì.
«Oh! Robbè! Che modi!» Alzò un manrovescio ma lo tenne in sospeso, frenato dal luogo sacro, dalla mia emotività e dalla presenza di Don D'Arcento, forse.

«A te fan gran bene le scudisciate, peccato che son sempre troppo poche!» Mormorò il prete. Non lo considerai. Lo pugnalai con lo sguardo e insistetti.

«Allora, vieni a benedire mio fratello?» Nando si scusò col prete per la mia mancanza di buone maniere e mi trascinò fuori dalla chiesa. Mi ordinò di andare a prendere i drappi dalla casa di nonna Rita, tanto era difronte. Mi assicurò che Don D'Arcento sarebbe venuto a benedire Gregorio.

«Fagli suonare le campane.»
«Sai che non è possibile quando volano gli aerei, rischiamo di attirarne altri...»
«Fagli suonare le campane!» Mi bruciavano gli occhi. Non volevo sentire ragioni. Volevo sentire i rintocchi delle campane per Gregorio.
«Vedo se lo convinco.» Di più non promise e mi sospinse via.

La piazza vuota sembrava sconfinata. Il sole, poco osteggiato da sporadiche nuvole, la incendiava. Il filo d'acqua dalla fontana brillava come vetro. Passai di lì col proposito di chiudere la manopola, dopo aver bevuto e bagnato gli occhi. Avevo la nebbia nella mente, non mi resi conto nemmeno d'esser già entrato in casa della nonna che mi ritrovai difronte al telaio da tessitura. Mi meravigliai, era il mio posto preferito. A discapito delle altri grandi stanze, tutte arredate con mobili che un tempo erano stati il massimo della ricchezza, una parte di me aveva scelto la saletta della teleria. Calai lo sguardo sul pavimento di maiolica disegnata a fiori gialli e blu. Come stavano male i miei piedi nudi e sporchi su quel prezioso mosaico. Ma al diavolo tutte quelle e altre cose, era il telaio che mi aveva attratto, era lì che trascorrevo il tempo libero, mi piaceva tessere. Sentire la navetta sfilare a destra e a manca, muovere il giogo con i pedali, controllare l'allineamento tra ordito e trama, agganciare i fili consumati con quelli nuovi, mi dava soddisfazione. Con un senso di nostalgia abbandonai la saletta della filanda e raggiunsi la nicchia usata come guardaroba della casa. La nonna era riuscita a mantenere la sua nobile abitudine di sfoggiare il meglio a seconda del periodo corrente, e i funerali non costituivano eccezioni. Era messo tutto così in ordine che impiegai pochi minuti per recuperare i drappi e il tappeto nero. Scelsi ciò che avevo intessuto io stesso, prevedendo di fare cosa gradita a quella vecchia e poi passai davanti a quella che lei chiamava aula. Un po' ci assomigliava perché c'erano dei banchi scolastici presi in prestito dall'oratorio della chiesa. Anche se su ognuno c'era il nome dei suoi nipoti incisi su piastrine di legno messe come segnaposto, nonna impartiva lezioni a tutti: ragazzi, bambini giovani, chiunque. La sua lotta contro analfabetismo tuttavia non era gratuita. In cambio si faceva pulire casa, curare il campo di cotone, filarlo quando era il periodo o in alternativa accettava denaro o provviste. Nonna Rita era un'ottima amministratrice. Indugiai sulla piastrina di Gregorio. La nonna lo aveva atteso da sempre, ma non c'era mai venuto. Dicevo che era un peccato, perché se io, Nando, Sabino, Palma e Cosetta sapevamo leggere, scrivere, un po' di aritmetica e parlare un discreto italiano, lo dovevamo a quella donna.

Corri incontro al fuocoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora