𝐌𝐞𝐦𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐕𝐈𝐈𝐈

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𝟐𝟎 𝐍𝐨𝐯𝐞𝐦𝐛𝐫𝐞 𝟏𝟗𝟓𝟗

La stanza attorno a me veniva percepita come irreale, non un solo rumore, o persona, non credo neppure potessi sentire i miei stessi pensieri da quanto silenzio era accumulato in quella stanza. Le pareti colore crema sembravano sul punto di sciogliersi, come i mobili ricordavano il cartonlegno che ero abituato ad usare da bambino. La luce principale proveniva dalla vetrata alla mia destra, ampia e lucente, dava vita a quella stanza sopraffatta dall'angoscia. Il ticchettio dell'orologio era surreale, ma scandiva ogni secondo, sempre più lento.
Le mie dita si strinsero attorno al bracciolo della poltrona, sprofondarono nel dolce velluto verde di cui era adornata quella soffice meraviglia.
«Non fa neppure essa rumore»
Mormorai prima di essere zittito dal tono chiaro di Ethan.
Il moro aveva i capelli legati, sdraiato sul divano con una gamba penzolante, stava fissando attentamente il soffitto, in cerca di non so cosa, ma sembrava una delle solite scene in cui sembrava morto, ed io potevo solo che attendere.
«Cosa vedi?», Domandai evitando il suo verso che mi zittì poco prima. Glielo chiesi più che altro per noia, sistemandomi sulla poltrona prima di accendere una sigaretta fra le mie labbra.
«Niente se continui a parlare»,
«Sei stato tu a chiamarmi, perché allora se non posso parlare?»,
«Non devi farmi bere, semplice.»
Lasciai uscire il fumo dalle labbra mentre i miei occhi girarono attorno alla stanza annoiati.
«Sei più divertente quando bevi.»,
«E tu più simpatico quando dormi.»,
Quella sua frase mi spiazzò, odiavo quando le mie condizioni si mostravano così palesemente a chiunque. Ma Ethan non era chiunque e un po' ci avevo sperato che notasse la mia sonnolenza.
«Ti avevo detto che dovevi dormire qui.»
Non risposi, mi concentrai sul fumo che usciva dalla mia bocca, sicuramente avrei iniziato a bere tè se la discussione sarebbe continuata.
«Ti... Ti ha fatto male?»,
«Definisci "male "»,
«Sai in che senso»,
«Si, ma voglio sentirlo senza mezzi termini, in modo che venga riconosciuto come reale.»
Ethan deglutì e prese tempo prima di rispondermi, sospirò una quantità infinita ed inutile di ossigeno.
«Ha abusato ancora?»,
«Oh si, si è scatenato questa notte.»,
Mi schiarì la voce arrotolandomi le maniche della camicia, mostrando i segni della corda sui polsi. Lo sguardo di Ethan si raggelò alla vista del rossore sulla mia pelle, un velo di cattiveria gli attraversò il viso appena si mise in piedi. Ma non fece nulla, semplicemente andò alla porta e la chiuse a chiave.
«Te rimani qui sta notte»,
«Ethan», mi lamentai, sentii il capo cadere a penzoloni dalla sedia, la sigaretta consumarsi lentamente.
Il comportamento del mio amato era agitato, camminava velocemente da una parte all'altra della stanza, sistemava dei fogli, guardava fuori dalla finestra, veniva da me, osservava i polsi e spariva in bagno, per poi tornare e rifare la solita pantomima. Mi creava confusione, mal di testa ed ansia, tant'è che mi alzai in piedi e mi sedetti sul bracciolo della mia stessa poltrona, pronto a fermare l'uomo a me appena si sarebbe riavvicinato.
«Ethan, tranquillo, sto bene.»
Le mie dita accarezzarono il suo broncio, cercarono di rassicurare quell'uomo protettivo che c'era in lui e che tanto amavo.
«Suwoo, il tuo amico ti sta abusando da settimane solo perché sei gay, cosa vuoi fare? Rimanere là? »
«Idee migliori? Se mi trasferisco qua lui potrebbe dire tutto su noi due e vedremmo per più tempo la galera ed uno psicologo che noi due a vicenda, ma per favore. ».
«Denuncialo all'Università!»,
«Mi trascinerà con sé!»,
«E che vuoi fare allora Suwoo? Andare avanti così fino alla tua laurea? ».
Alzai gli occhi stanchi sul ragazzo, spegnendo la sigaretta nel posacenere poggiato sul tavolino di fianco a noi.
«So solo che al momento voglio morire un po' di più.»
«Nel nostro modo?»
Chiese Ethan, ed io annuì. Ci eravamo conosciuti così, entrambi uomini desiderosi di morire che avevano escogitato quella fuga, semplice ed elegante, una morte effimera.
Ethan si sedette al pianoforte con me accanto, posò le sue dita sui tasti, respirò profondamente, chiuse gli occhi e spinse le prime dita. Io feci lo stesso, chiusi gli occhi con lui e mi lasciai trascinare in un altro mondo, per prendere un po'di forze da qualcosa che non fosse marcio. La musica di Ethan era genuina, anche se si trattava solo di un adattamento dei vecchi maestri, sembrava musica diversa, nuova. Era adeguata al momento che stavamo vivendo: lenta, pesante, con un retrogusto amaro e angoscioso. Ma era perfetta.

A fine della melodia potei sentire il braccio di Ethan avvolgermi la vita, ma non rimase in silenzio come al solito.
«Sai cosa potremmo fare?»
Ethan ottenne tutta la mia attenzione con la sua semplice frase.
«E cosa?»,
«Ti porto in un luogo.»
Si alzò di scatto, tant'è che persi l'equilibrio e caddi con il viso contro lo sgabello. Onestamente non avevo intenzione di muovermi da lì, troppo esaurito e stanco psicologicamente per fare qualcosa di diverso dal sopravvivere.
«Non mi sento in forze Ethan»,
«Smettila, ti farà bene invece».
L'uomo si avvicinò a me con il suo cappotto ed una sigaretta fra le labbra, già pronto ad accenderla.
«E dove sarebbe questo "luogo"? Soprattutto a far che alle cinque di pomeriggio?»,
«Ti porto a ballare.»,
«Ballare? Non so ballare.»,
«Come non sai ballare? Tutti sanno ballare, ti ho pure insegnato qualche giorno fa, andiamo! Il Twist te lo ricordi? »,
Negai.
«I balletti Swing?»,
«Non so fare nulla Ethan, smettila»
Risposi ridendo per la sua adorabile insistenza, ma questo mi si sedette affianco a me allibito, togliendosi di bocca la sigaretta fatta male.
«Quindi niente?»,
«Niente.» confermai osservandolo così stupito in viso.
«Che c'è?» domandai allibito dalla sua espressione.
«No, nulla, è che, hai una conoscenza così vasta delle lingue morte, molte culture e soprattutto delle scienze... e non ti ricordi come si balla un foxtrot?»
Solamente la mia espressione confusa da quel nome strano gli servì come risposta.
«Andiamo! Bisogna rimediare e tenerci la testa ben occupata.»
La sua mano mi sollevò dallo sgabello, ben decisa dal portarmi fuori e ci riuscì, quell'uomo riusciva a farmi fare tutto.
Camminammo in silenzio lungo la strada, arrivammo al locale mezz'oretta dopo, solo allora Ethan si accese la sigaretta, la quale si rivelò non essere solo tabacco puro.
«Ethan?»
La mia voce uscì forse un po' acuta, ma la mia preoccupazione fu più che chiara, ovviamente il moro sorrise e si avvicinò a me, azzardando ad accarezzarmi le braccia con le sue per passarmi il fumo passivo nella mia bocca. La prima volta tossì, la seconda lo allontanai solamente, mentre già alla terza mi iniziai un sentire uno strano effetto di calma, la mente era annebbiata e la vicinanza di Ethan mi faceva solo che piacere a quel punto. Eravamo solo noi due nella strada deserta, già al buio e nascosti dalla pesante nebbia di quel giorno, appoggiati al grande muro che ci separava dal parco di una scuola privata.
Ovviamente le mie preoccupazioni rimasero ben in testa, ma con meno peso, soprattutto la domanda più pesante diventa leggera come una piuma.
«Ethan, tu sai che siamo due uomini, vero?»,
«Sì, e allora?»,
«Guarda che ci arrestano se entriamo così»
Commentai ridendo per come sembrava esserselo dimenticato, ma era una situazione più che seria e sembrava che al ragazzo non toccasse minimamente.
«Ovviamente questo è un posto sicuro, tranquillo.»
Mi rassicurò con quelle parole, seguite da un lieve bacio sulle mie labbra, gesto che mi fece ben arrossire in viso.
Quando entrammo venimmo accolti da un chiassoso e caloroso benvenuto fra musica, chiacchere e fin troppo cibo, tirando la vista notai nella folla molte coppie come noi, libere e tranquille, ballavano come se tutto quello fosse normale e le invidiavo.
Senza accorgermene Ethan mi aveva accompagnato in un angolo della pista, dove mi insegnò a ballare i primi passi, ed io semplicemente lo seguì, ripetendo le sue gesta e finendo nel giro di poco a ballare con il ragazzo. Il sorriso che Ethan mi rivolse in quelle ore di pura libertà, per me, divenne un segno di speranza più che chiaro, potevo morire per finta quante volte volevo, sapevo che l'uscita di sicurezza, chiamata morte, era sempre lì a disposizione in qualsiasi momento. Quei pensieri misti al bellissimo sorriso di Ethan, alla sua risata e alla voce leggermente acuta di quel momento, mi fecero intendere di come io avessi bisogno a continuare a curiosare nel mondo, ad assaporare quei dolci momenti, per quanto rari, molto importanti per me. Quelle ore di svago mi salvarono quel giorno come i giorni seguenti. Non avrei mai detto che ballare mi potesse essere così d'aiuto, fu un momento terapeutico: Io e Ethan ballammo assieme, come se fosse cosa normale, accennavamo passi, seguivo i suoi piedi e mi lasciavo trascinare dai movimenti delle sue gambe, trasportato dalle sue mani ben salde attorno alla mia vita, il ragazzo mi rivolgeva parole di incoraggiamento, commenti desiderosi e infine non poté che applaudirmi a fine brano per come mi fossi buttato in quel mondo a me sconosciuto. Continuammo per molte ore, seguivo Ethan come incantato, non staccavo il mio sguardo dal suo viso, adornato dai suoi occhi scuri di creolo, le sue ciocche nere, che non celavano alcun problema, né pensiero, non in quell'istante fugace di gioia.
Di quella giornata mi rimase ben impresso un discorso che mi fece Ethan durante una pausa dal ballo.
«È divertente ballare vero? Sono così anche le altre piccole cose che non sai fare, eppure non ti rendono felice, io non lo sono, tuttavia ci vivo in questa vita superficiale. A mia volta, mon Amour, mi stupisco che tu sia così deluso dalla vita, dato che conosci alcune cose più profonde e meravigliose di essa. Questa è la risposta per quando mi hai chiesto il perché di questa attrazione tra noi due: Io ti piaccio e conto qualcosa per te perché ti faccio da specchio, perché in me c'è qualcosa che ti risponde e ti comprende, e così è per me.
Impareremo a vicenda ciò che vorremmo sapere, continuando a non essere felici, perché sai, Suwoo... noi due siamo figli del demonio.»

Danzando come ali di farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora