Ecco il mio solito compito. Quello di prendere la legna su, al piccolo cottage dove, a lato, vi erano ammassati pezzi di tutte le dimensioni. Tra quelli, distinguere quella asciutta da quella bagnata, caricarla sul carretto che dovevo portarmi appresso, altrimenti non sarei riuscita a sostenere da sola tutto quel peso, e infine seguire la strada che avevo percorso all'andata, facendo attenzione a non far rovesciare il mio unico mezzo di sostegno a causa delle radici che affioravano dal terreno. Questo era l'aiuto che dovevo dare ai miei ogni santissimo giorno. Lì a Shavan il lavoro si tramandava di padre in figlio, e io avrei dovuto fare lo stesso: sgobbare come falegname nella bottega di famiglia, e far fare lo stesso ai miei futuri figli. Io però ambivo a qualcosa di più, a qualcosa che mi rendesse felice veramente, non solo per soddisfare le aspettative di tutti, dimenticandomi di quali fossero le mie aspirazioni.
"Ireya! Forza Ireya, vieni! È pronto!" urlò mia madre dalla porta di casa che dava sul bosco nella quale io ero andata a svolgere il mio fatidico compito.
"Arrivo!" gridai, seccata senza un motivo. Non mi accorsi però che un tronco mi sbarrava la strada, così inciampai e caddi. I miei capelli biondi a terra sembravano spighe di grano ed il contatto con questa, ancora umidiccia dalla pioggia del giorno prima, mi fece rabbrividire e al tempo stesso inebriare del suo odore di muschio, portandomi a dimenticare di tutto il resto e del dolore lancinante alla caviglia. Stesi le braccia nel tentativo di alzarmi ma, non riuscendo nel mio intento, chiamai aiuto e mia madre arrivò, ancora con il grembiule da cucina, e con uno sforzo immenso scostò la legna da quella specie di carriola a quattro ruote, mi ci mise sopra e mi portò a casa."Una semplice slogatura, qualche giorno di riposo e tornerà come nuova" disse il medico di paese, che spalmò sopra la mia caviglia una pomata verde oliva dall'odore acre. Istintivamente, mi tappai il naso con le dita ancora sporche di fango a causa del mio incidente. Il dottore però se ne accorse e mi rassicurò spiegandomi che si sarebbe assorbita presto. Guardò meravigliato i miei occhi di due colori diversi, uno azzurro chiarissimo e l'altro verde. Io abbassai lo sguardo e, imbarazzata, cercai di mettermi in piedi. Facendo fatica a camminare, mio padre allora mi issò sulle sue spalle e mi accompagnò nella mia stanza da letto, mentre mia madre salutava l'ospite.
Mentre chiudeva la porta la sentii sbuffare e parlare con suo marito del fatto che non stessi mai attenta a dove mettessi i piedi. Io ero assolutamente indifferente a quel commento e intanto stringevo tra le mie braccia il cuscino, unico modo per sfogare il dolore appena causato da un movimento brusco del piede.
Mi accorsi di aver dormito per un po' solo quando sentii i passi dei miei allontanarsi e abbassare l'asse che teneva la porta chiusa sugli appositi sostegni. Sul mio comodino prendeva invece posto una zuppa di funghi, colti la mattina stessa da mio padre. "La mia preferita!" esclamai tra me e me sottovoce, quasi temessi che qualcuno mi avrebbe impedito di gustare quella prelibatezza fumante. Mangiai in pochi secondi e appoggiai il cucchiaio in bilico sul piatto, stendendomi di nuovo per sprofondare nuovamente in un sonno molto leggero, tormentato da quel dolore lieve ma incessante.
La mattina dopo fu mia madre a svegliarmi. Mi misi seduta, stiracchiandomi e facendo roteare il collo, che continuava a schioccare. Constatai che la caviglia non mi faceva più male.
Camminai comunque con molta calma e riuscii ad arrivare in cucina. L'odore di legno dilagava per tutta la casa e dal focolare domestico una coltre di fumo si innalzava nell'aria. Chiesi, con fare assonnato, cosa avesse preparato per colazione e lei mi rispose, in modo sarcastico: "Marmellata di bacche di ginepro su fette di pane." La marmellata era un alimento costosissimo e mia madre scherzò parlando in quel modo. Io in realtà non l'avevo mai assaggiata, non sapevo che gusto avesse e nemmeno della sua preziosità, infatti non capii l'ironia.
La vera colazione consisteva nella zuppa, avanzata la sera prima.
Finita, annunciai a mia madre che sarei andata al mercato. Adoravo farmi spazio tra la gente che si spostava da una bancarella all'altra e stare a guardare i litigi dei venditori, i quali rivendicavano a vicenda, senza far mancare offese e provocazioni, le zone dove riporre la merce.
La mia esposizione preferita era però quella del fabbro Ander, che possedeva una bottega appena fuori città e che, ogni anno, mi regalava sempre gli oggetti e gli amuleti più strani, che nessuno aveva voluto comprare la volta precedente. Quando mi vide mi corse incontro e mi abbracciò. Appena ci separammo, notai che al collo avevo una pietra nera traslucida dai riflessi argentei.
"Grazie Ander! È bellissima!" esclamai, colta da una gioia immensa.
"Un'anziana di Ethis me l'ha regalata. Ha detto che chiunque la indossasse avrebbe avuto la fortuna dalla sua parte."
"Non so come sdebitarmi, davvero"
"Lo fai già con il tuo sorriso" concluse lui.
Diedi un'occhiata alla sua bancarella. Era composta da spade di ogni tipo, alcune addirittura di fattura elfica. Archi di legno di frassino e robinia, insieme alle faretre sottostavano, abbellendo il tutto.
Dopo qualche ora di erranza per quelle strade, decisi di visitare la cascata Vantas e mi incamminai ad ovest, inoltrandomi nella penombra del bosco. Il rumore dei miei passi sopra le foglie secche risuonava dappertutto e, sentendo questo, volatili di ogni tipo scappavano, facendo udire il loro battito d'ali.
Giunta sul dirupo che dava sulla cascata, mi sedetti e aprii le braccia, assaporando l'odore di muschio che il vento portava, scompigliandomi i capelli. Le goccioline prodotte dallo schianto della cascata sull'omonimo fiume mi bagnavano le vesti, facendomi rabbrividire. Eppure, io non ero per niente infastidita da ciò. Guardavo semplicemente l'orizzonte, schermandomi con la mano dal sole che rendeva impossibile la vista. Il paesaggio che si estendeva sotto di me era meraviglioso: Shavan, divisa in due dal corso d'acqua, si ergeva con le sue case, alcune munite di veri tetti, altre semplicemente di paglia. Il sole si accingeva a nascondersi dietro i comignoli delle case, mentre la gente tornava a casa per prepararsi alla cena. La luce era già tramontata quando, seduta sul crepaccio, mi ricordai che dovevo tornare a casa.
Durante il tragitto di ritorno, la luna piena di quella notte mi fece vedere dove mettevo i piedi, e in un lampo fui a casa. Entrai dalla finestra di camera mia, per non incappare in mio padre, ma lui evidentemente aveva previsto le mie mosse perché, quando balzai sul pavimento, mi ritrovai faccia a faccia con lui. Con uno sguardo serio e riprovevole, si limitò a dire: "La cena è sul comodino", fece retrofront e si chiuse la porta dietro, provocando un gran baccano. Mi sedetti sul letto e, affamata, iniziai a mangiare. Finii in un attimo e mi stesi sul letto a guardare un angolo del soffitto, dove faceva capolino una ragnatela.
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L'Occhio Delle Dinastie ©
FantasyIreya, una ragazza di sedici anni che trascorre la sua monotona vita in una città sperduta del Continente, è costretta a dover partire per sfuggire ad un nemico che la vuole morta da quando è nata e unirsi a quelli come lei, i Predetti, dotati di po...