Capitolo 4

7 0 0
                                    

In casa mia, giravo sempre scalza, mia mamma mi sgridava e mi ripeteva che prima o poi mi sarei presa un malanno, però mia piaceva molto anche di inverno quando il pavimento era un lastra ghiacciata.

In ospedale c'è un altro tipo di freddo, non è romantico come quello dei fiocchi di neve e nemmeno divertente come quello che si condensa sui vetri del salotto a Natale; il freddo era come quello di una vetta nuda, niente alberi, niente animali, solo tormenta e vento che screpola le labbra. 

Io e Jules il primo dicembre facemmo un pupazzo di neve, con i bambini malati terminali, li guardavo con tristezza, piccole vite spezzate senza un motivo o una ragione precisa, la loro era una semplice questione di sfortuna, poteva capitare a chiunque ancora quello schifoso bastardo dell'universo aveva deciso per loro.

Il pupazzo venne tutto storto, gli si staccò un braccio dopo due ore e aveva un occhio verde e l'altro rosa, vabbè i bimbi erano contenti lo stesso e anche noi tutto sommato; erano settimane che non trovavo la ragazza con gli occhi verdi forse era tornata a casa.

Proprio quel giorno mentre salivo sul tetto, il mio pensiero tornò a lei, al fisico flessuoso e gli occhi chiari da felina, incuteva un'auro di rispetto e curiosità e un pizzico di timore.

Svoltai il mio solito angolo per sedermi sul mio gradino e la trovai lì, aveva un pigiama leggerissimo e i piedi scalzi, la zazzera corvina sulle mattonelle bianche risaltava paurosamente, il petto si alzava e abbassava lentamente e le palpebre febbricitanti si muovevano inquiete. Non avevo mai visto una scena così raccapricciante, e poi improvvisamente il terrore venne spazzato via da una folata di spaventosa consapevolezza.

Una bustina ancora affianco alla ragazza  aveva circa un dito di polvere bianca, ma certo, cosa se non una tossica, non era in overdose, sembrava più una brutta reazione allergica. Non doveva essere di buon umore quando l'ha assunta, aprì leggermente gli occhi, ma comunque non parve accorgersi della mia presenza.

Le tirai su la testa e la scossi con iniziale delicatezza, la preoccupazione però andava crescendo e la schiaffeggiai con tutte le mie forze, facendole spalancare gli occhi e prese una gran boccata d'aria. Sospirai di sollievo e mi sfilai la giacca per riscaldare gli arti ibernati, la trascinai fino al muretto dove appoggiò la schiena, tremava ed era imperlata di sudore.

Teneva gli occhi chiusi, respirava profondo come un corridore dopo un maratona, quando finalmente mi rivolse lo sguardo notai il volto scavato attorno agli occhi arrossati e si portò le mani affusolate sul viso.

Le porsi un termos di tè caldo che bevve con foga sbrodolando sulla mia giacca, pazienza meglio una giacca rovinata che una bellezza morta congelata, le  sue labbra secche mi regalarono ciò che meno mi sarei aspettata: un sorriso, smorto e forzato eppure lessi riconoscenza e gratitudine.

Sussultai quando mormorò un debolissimo grazie, aveva una voce roca e con una lieve erre moscia, non so precisamente quanto tempo passammo in silenzio sedute l'una a fianco dell'altra, ricominciò a nevicare e mi porse un lato della giacca e ci scaldammo a vicenda mentre fiocchi sempre più grandi rimanevano incastrati trai ricci ribelli.

invisibileDove le storie prendono vita. Scoprilo ora