Capitolo sedici: Giornata di sole

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Le prime luci dell'alba illuminarono la stanza  dove Innania riposava. Era una bella giornata di inizio primavera, dal clima tiepido tipico delle mattinate in cui è ancora troppo presto per il caldo torrido dell'estate e troppo tardi per il freddo gelido dell'inverno. La mimicana dormiva sonni inquieti, pieni di incubi spaventosi dove si ritrovava a tradire il mondo intero. Sogni che non erano poi così differenti dalla realtà dei fatti. Menasse e Belial parlottavano a bassa voce in cucina mentre la domestica si dava già da fare con le pulizie, seguita da alcuni robot da lei creati. La sala da pranzo grigia profumava di waffle e arance, i due cibi preferiti del rosso. Il dolce odore della colazione si era poi espanso per tutta la casa, fino a raggiungere il giardino ricoperto di rose. Come al solito l'albino aveva fatto preparere una colazione abbondante per due, anche se lui si riempiva con un solo caffè, poichè sapeva bene che il suo compagno aveva bisogno di vedere gli altri nutrirsi per farlo a sua volta. I due sposi si stavano godendo il giorno libero del politico, chiacchierando del nulla mentre aspettavano che la loro ospite si svegliasse per fare il primo pasto della giornata tutti insieme. Sembravano allegri in quel momento, con il sole che illuminava gli occhi ancora gonfi del modello e l'altro che lo accarezzava con una premura quasi paterna. Un pittore avrebbe potuto dipingere quel momento per ritrarre il vero amore. Ma il loro non era un legame puro, quanto più mera ossessione. Belial aveva bisogno di Menasse per esistere, tutta la sua vita ruotava intorno a quell'uomo e, d'altra parte, la sua vittima aveva troppa paura della solitudine per ribellarsi, convinta di poter essere amata solo per la sua bellezza. Erano un'accoppiata corrosiva, destinati per loro natura a distruggersi a vicenda. Troppo legati, troppo morbosi e troppo insicuri. Basta poco per imprigionare un animaletto ferito, addomesticarlo e chiamare questo affetto. Eppure da un occhio esterno quell'esistenza poteva apparire magnifica, quasi celestiale. Soldi, premure e regali erano sempre alla portata di Menasse, ma sono questi più importanti della libertà? Ormai erano passati mesi dall'ultima volta che il modello era uscito dalla prigione in cui era relegato. Il suo momento di vita era stata una breve ora d'aria, scortato da cinque uomini dell'albino, dove aveva posato per una rivista e poi era stato riaccompagnato nella sua cella. Un tempo era solito andare nel giardino, ma aveva iniziato a mettergli malinconia osservare la recinzione per lui invalicabile. Sempre più frequentemente passava il tempo chiuso nella sua stanza ad attendere l'arrivo del marito, senza uscire nemmeno per sgranchirsi le lunghe gambe. Nella solitudine aveva provato a studiare, dipingere e suonare, ma si era rivelato un disastro in tutto. La sua unica dotete era la bellezza e una volta sfumata con il sortilegio del tempo solo Belial avrebbe continuato ad adorarlo. Il sogno di essere amato e non usato lo aveva reso cieco persino davanti al suo stesso dolore, arrivando a rinnegare il vuoto che sentiva dentro al cuore. Aveva rinunciato a tutto per il suo eroe, ma non sapeva che il principe che tanto venerava era invero un monstro. Come un fiore lentamente appassiva abbracciato dal candore della neve, senza venir colto o avvertito, solo moriva nella tempesta.

Innania uscì dal suo rifugio solo dopo che l'orologio della camera scoccò le dieci in punto. Le sembrava di star per rigurgitare persino il suo stesso stomaco. Ora che lo shock e la droga erano scemati rimaneva solo la fredda consapevolezza del gesto che stava per compiere. Le parole che si era detta subito dopo aver ricevuto la proposta ora le sembravano vacue. Certo, lei non poteva fare nulla per salvare gente già dannata e tutti al suo posto avrebbero scelto il medesimo percorso, ma questo poteva seriamente scagionarla? Il non avere scelta è una giustificazione adeguata per una decisione sbagliata? Di certo abbandonare suo padre negli ultimi istanti di vita non era tra le opzioni. Pur di abbracciare suo zio per un'ultima volta valeva la pena scendere a patti con Satana. Anche a costo di bruciare la sua anima non avrebbe abbandonato chi l'aveva allevata e innalzata verso il cielo. Questo l'avrebbe forse resa una cattiva persona? Quanto è labile il confine che separa il bene dal male, sempre che ne esista uno? Voleva essere la salvatrice di un popolo, l'eletta, ma forse quello non era il suo compito nella storia. Non sapeva se ciò che stava facendo era giusto o sbagliato, ma non poteva voltarsi indietro. Avrebbe compiuto il suo destino e ne avrebbe accettato le conseguenze. Nemmeno Dio può salvare chi è incapace di rinunciare a coloro a cui sono devoti. Fu in quel momento che Innania capì la maledizione di essere un'eroina. Nessuno riesce a reggere il peso di così tante vite sulle spalle. Nessuno riesce ad abbandonare i propri desideri per il bene superiorie. Alla fine o trionfa l'egoismo o si viene schiacciati, e la donna non aveva alcuna intenzione di venir sommersa da quelle vite ormai destinate al dolore. Se voleva sopravvivere doveva rinunciare alla sua carica di autoproclamata salvatrice e vivere da semplice umana, almeno per qualche tempo. Lucas l'avrebbe forgiata di nuovo e resa una persona decente. Lui poteva pulirla dai suoi mali, solo lui tra tutti. Per questo aveva bisogno del suo re, la completava, la purificava. Lui era la sua origine e la sua fine, dalle sue scelte dipendeva il destino della fanciulla. Ella era succube del suo amore poiché era l'unico che avesse mai conosciuto. Aveva un debito infinito nei confronti dello zio, così grande che cento vite non l'avrebbero mai ripagato. Si sarebbe maledetta e poi curata, ma doveva sacrificarsi per chi aveva dato tutto per lei.

Inania non aprì bocca per tutta la colazione. Una parte di lei, quella abituata alla fame, voleva solo ingozzarsi con i waffles, ma il suo corpo si rifiutava di ingerire qualsiasi cosa. Fissava semplicemente il piatto sperando di trovare l'appetito, anche se il solo atto di respirare le provocava dolore. I due sposi non sembravano degnarla di uno sguardo, eppure la più giovane si sentiva ugualmente spiata. Aveva pensato di esporre la sua situazione a Belial, ma il solo aprir bocca la riempiva di vergogna. Come poteva parlare del suo dilemma ad un uomo che aveva rinunciato alla fama per un popolo che nemmeno era suo? Sicuramente l'avrebbe aiutata, ma non voleva deluderlo. La mancanza di Lucas l'aveva portata a vedere nell'albino un surrogato di suo zio. Non si erano parlati poi molto, ma era qualcosa nel suo modo di fare che la faceva sentire al sicuro. Ancora aveva a cuore il ricordo di quando lui si era inchinato davanti a lei, un dio che si prostrava ai piedi di una plebea. L'intuito le diceva di non fidarsi, ma la fanciulla che dimorava nel suo spirito aveva solo bisogno di una figura genitoriale da stupire. Non voleva perdere il rispetto che pensava di essersi guadagnata ai suoi occhi.
Dopo un quarto d'ora si era arresa alla mancanza d'appetito. Salutò i due uomini e si alzò dal tavolo con aria stanca, scivolando lentamente verso la stanza degli ospiti. Nell'affrontare il suo destino voleva almeno sembrare presentabile, quindi si fece una doccia fresca e indossò i nuovi abiti che Menasse le aveva comprato. Lucas un giorno si perse nel raccontare le usanze funerarie dei tempi precedenti alla terza guerra mondiale, aveva detto che durante il lutto le persone erano solite portare solo capi d'abigliamento neri. Fu quasi ironico per la giovane rendersi conto che l'unico vestito capace di non sfigurare nel suo corpo possente era una sottoveste color pece.

Una macchina si appostò vicino alla residenza Hill alle undici e trenta del mattino. Pochi minuti dopo Cassandra fece irruzione nella stanza da letto dell'immigrata, comunicandole che il signor Laitinem era incaricato di scortarla fino alla dimora di Sitri, per ordine del console. La donna sembrava abbastanza sconvolta, quasi preoccupata. Al contrario Innania pareva aver rinunciato alle sue ansie e ai suoi dubbi, aveva imparato che rimuginare troppo su una decisione era futile. Doveva solo accettare il fato che le era capitato e affrontarlo a testa alta. Lo aveva detto lei stessa, chiunque avrebbe fatto il medesimo atto egoista al suo posto. Alla fine quella non era una decisione così importante, si trattava solo di dare dei soldi ad una macelleria Alastoriana, si sarebbe fatta perdonare liberando il suo popolo in futuro. Ma qualcosa le diceva che non avrebbe più fatto ritorno dalla strada che stava per intraprendere.
《Grazie mille, Clarissa》sussurrò prima di addentrarsi nel labirinto che era casa Hill. Cercava di ricordarsi la strada per l'uscita, perdendosi tra le mura grigie, seguita da una corte di demoni interiori ed errori. Camminò per pochi minuti, ma le parvero ore. Proprio come se fosse una condannata che stava andando al patibolo la paura si mescolava alla rassegnazione. Quando finalmente aprì il portone principale la calda luce del sole le baciò il volto, ma non si sentiva degna del mattino e nel suo cuore bramava solo di tornare nelle tenebre. Udì in lontananza la voce di Belial gridarle di non andare, ma ormai la giovane era salita sull'automobile nera della famiglia Nieminem.

Raziel indossava un prendisole color blu notte, una pelliccia bianca e due stivaletti ad anfibio che gli arrivavano fino alle ginocchia piene di lividi. I capelli mossi erano ricoperti da glitter e aveva nascosto le poche ciocche chiare tra quelle nere. Due occhiaie marcate di un acceso color viola cerchiavano lo sguardo vuoto e il trucco gotico non poteva mascherare il gonfiore dei suoi occhi. Beveva un cocktails scuro e faceva penzolare avanti e indietro le gambe magre. In lui c'era qualcosa di profondamente sbagliato, grottesco. Come un attore fallito forzava se stesso in un ruolo che non gli apparteneva, incapace sia di unirsi completamente a quel personaggio sia di lasciarlo andare. Vicino a lui sedeva Raffaele con aria preoccupata. Anch'egli pareva stanco, ma tentava di nasconderlo con un atteggiamento professionale, che poco gli si addiceva. I ricci biondi erano legati in una coda alta e indossava una semplicissima uniforme da lavoro rossa, molto simile ad una toga. Nel mezzo di trasporto si respirava un'atmosfera pesante che entrambi provavano in maniera poco abile a nascondere. Il maggiore stringeva dolcemente la mano del ragazzino, forse per dargli coraggio. Era un gesto privo di malizia, più simile al tocco di un fratello rispetto a quello di un amante.
Innania entrò a malincuore nella vettura, chiudendosi alle spalle la sua ultima possibilità di redenzione.

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