Capitolo 5

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N.A: cambiando telefono, il simbolo delle virgolette per il discorso diretto è diverso. Mi sembrava opportuno avvisarvi, e buona lettura!

Armin si sentiva inquieto. Dopo l'inaspettata visita di Eren, e la scoperta che forse (dettato più dalla paura che dalla credulità), Mikasa potesse essere nei guai, il suo cuore era rimasto intrappolato in un grovigli di dubbi e paure. Paure che davano quel senso di dovere, da parte di un amico, a fare il possibile per aiutare la sua amica.

Ad essere completamente sinceri, Armin non aveva ben capito cosa avrebbe dovuto fare, tantomeno quanto utile sarebbe stato il suo intervento. Eppure aveva riletto più volte il biglietto lasciato da Eren poco prima di andarsene via di casa, e ripeteva sempre le stesse cose:

"Sei bravo nelle ricerche, per cui rintraccialo: si sta nascondendo dalla polizia, e dobbiamo fermarlo prima ancora che possa commettere altri omicidi. Una volta ritrovato, vai da lui e inventati una qualsiasi scusa per entrare in casa sua. E prova a scovare più informazioni possibili. Io e Mikasa contiamo su di te ;)"

Era chiaro ciò che dovesse fare; le parole inchiostrate su quel biglietto, non sarebbero cambiate. Tuttavia, un dubbio lo stava tormentando: come aveva fatto, Eren, a scoprire, o addirittura, capire, che Jean Kirschtein, il quale sicuramente non aveva mai frequentato, tantomeno conosciuto, fosse un complice di Rouge Titan? Ammesso e non concesso che lo fosse davvero. Anche perché, da quanto riportato al telegiornale, e nel verbale della polizia, il quadro generale dava solo un sospetto (o una certezza) che Jean si fosse spacciato per l'assassino; non che fosse un complice.

Ma il più grande difetto di Armin, era quello di sopraffare la ragione con le emozioni più oscure e cupe che si nascondevano in lui, come la paura. Per questo, da una settimana a quella parte, il povero ragazzo vittima di un inganno, si era messo alla ricerca, attento ai dettagli, ma soprattutto ragionando su come un criminale di quella bassa portata potesse essersi mosso. Perché alla fine di tale si trattava: Jean Kirshtein non era un pezzo grosso, ma solo un bambino viziato troppo cresciuto. Forse l'unica cosa di cui era certo.

Davanti al computer, con quelle occhiaie che lo facevano sembrare un panda, Armin stava sorseggiando l'ennesimo caffè di quella settimana (ed era da notare quanto non gli piacesse quel tipo di bevanda) e la scrivania era colma e stra colma di fogli svolazzanti, mappe segnate di rosso e libri di pagine gialle con ogni numero e civico della città. Ma si sa, New York non è proprio una cittadina piccola, e le quantità di strade e quartieri abbandonati sono infinite, riducendo assai le probabilità che il sospettato potesse essersi rifugiato in quei luoghi. Era per questo motivo che, dopo qualche giorno di riflessione, Armin aveva spostato la sua attenzione dalla grande metropolitana ai quartieri meno affollati, se non quasi abbandonati.

«Ancora alle prese con queste ricerche?»

Una voce soave, dolce e serena sembrava quasi una visione per Armin: considerando la stanchezza che stava prendendo il sopravvento, era assai probabile che stava penetrando nella fase non-rem dove la coscienza lo abbandonava. Ma non appena notó Annie sedersi sul divano accanto a lui, con una tazza fumante di tè tra le mani, si rincuorò: la sua ragazza era ritornata tre giorni prima di quel pomeriggio, dopo il suo viaggio in Germania. Onestamente, l'unica cosa che il suo compagno aveva capito era che aveva doveva far visita ai suoi nonni, ma non gli erano chiari bene i motivi. Tuttavia, data la sua fiducia smisurata per quella ragazza, non aveva fatto domande, e neanche veniva colto dal dubbio di fargliene.

«Come ti senti?» chiese Annie notando le sue condizioni fisiche poco rigenerate. Armin sospirò mentre si portava una mano ai suoi occhi stanchi, stropicciandoli.

«Diciamo un po'... esausto» marcò per bene l'ultima parola. Posando la tazza sul tavolino davanti a lei, Annie si posizionò dietro la schiena del suo ragazzo mentre lo accarezzava con dolcezza. Armin si compiacque di quelle carezze, un toccasana per lo stress che si era accumulato in quei giorni di fatica.

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