Divino Profumo - Quarta Parte

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L'insegna "Da Berto" è sempre la solita. Ma l'ho fatta riverniciare e tirare a lucido. E quando il vento la muove non cigola più.

Accanto alla porta ho fatto mettere una targa di legno, simile all'insegna, con la scritta 'Enoteca'.

È stata dura, durissima.

Decidere di riaprire l'osteria è stata una pazzia. Per una donna sola una pazzia doppia. Una pazzia che solo una donna può pensare di trasformare in qualcosa di reale.

Gli anni ottanta non erano più tempo per le osterie di paese. Ma ho resistito alle lusinghe dei facili guadagni. Alle proposte di trasformare il locale in un bar, o in una pizzeria. O in una di quelle 'paninoteche' che tanto andavano di moda fra i giovani.

È stata dura.

L'unico a darmi una mano è stato Rashid, un giovane tunisino, sedicente cuoco con una laurea in letteratura francese in tasca, che ho faticosamente iniziato ai segreti del bollito e del fritto misto. Lui in cucina e io a correre fra sala e banco.

Anni passati in compagnia di clienti anziani che diventavano vecchi. E che sospettavo ormai si trovassero tutti i giorni all'osteria "Da Berto" per fare l'appello e cancellare dalla lista chi non si era svegliato. Passando a miglior vita.

Io avevo iniziato a pensare che anche il mio nome fosse scritto su quella lista, e stancamente aspettavo il mio turno.

Poi la fortuna mi ha fatto due regali.

La nuova autostrada per Torino con il casello a quattro chilometri da qui ha portato gente nuova. Gente di città desiderosa di riprovare piaceri e gusti perduti. E poi le aziende che hanno iniziato ad aprire nella piana accanto all'autostrada.

E poi è arrivata Sabine.

Aveva vent'anni quando una mattina me la sono trovata davanti all'osteria. Lei e il suo ragazzo. Avevano passato la notte nel loro furgoncino Volkswagen scassato. Due veri figli dei fiori in viaggio verso un qualche luogo sconosciuto che fosse diverso dalla loro Svizzera.

È entrata e mi ha chiesto due panini.

"Quelli che costano meno."

Quando ha messo le mani in tasca per pagare non aveva neppure quei pochi soldi. Ma mi stava simpatica quella ragazzina dagli occhi troppo grandi per un corpo così minuto. Li ho fatti accomodare al mio tavolo, quello accanto al camino, e ho offerto loro due bicchieri di Grignolino.

"Profuma di mughetto."

Erano state le sue prime parole dopo aver appena bagnato le labbra col vino. Sono andata in cantina e le ho portato un calice con un dito di Barbaresco della vigna di Enzo.

Sabine ha continuato a raccontarmi dei profumi e dei sapori di quei vini.

Quelli sono i momenti in cui credo nell'esistenza di qualcuno di superiore. Un Dio burlone che si diverte a far nascere una ragazza con quel dono in uno dei posti più alieni dal gusto del buon cibo e del buon bere.

Sabine aveva il segno.

Ho aperto a lei e al suo ragazzo le porte della casa dei nonni, e quella dell'osteria.

Lei non mi ha mai chiesto il perché di quel mio gesto di generosità apparentemente senza senso. Ed è stato bene così, perché non sarei stata in grado di dare alcuna spiegazione razionale.

Così Sabine è diventata la mia aiutante, la mia assistente, la mia discepola. E un po', in cuor mio, la figlia che il destino mi aveva negato.

Dopo qualche settimana, in una mattina fredda e piovigginosa, il ragazzo di Sabine ha caricato le sue cose sul furgone scassato ed è ripartito.

La nebbia delle valli delle Langhe era probabilmente troppo anche per un figlio del Canton Giura.

Ricordo il bacio che le ha dato sulla porta e gli occhi con cui lui la guardava.

Ho visto l'amore in quello sguardo.

L'amore assoluto.

Un amore così grande da fargli capire che lei voleva altro dalla propria vita e che era arrivato il momento di lasciare la persona amata libera di seguire il suo destino.

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