Capitolo 8

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Chiamai mia madre spiegandole della Dodds e del suo progetto Tutor, poi andai ad aspettare Annabeth di fronte al bar. Non vedevo l’ora di passare un po’ di tempo insieme a lei, nonostante la litigata con Rachel.
Intravidi subito la sua chioma bionda, così le andai incontro.
“Ehi, ciao” le dissi tutto allegro. “Andiamo?”
“Sì, andiamo”, mi sorrise.
Aprii in modo cavalleresco la portiera della mia macchina, e Annabeth, dopo un po’ di proteste (“Avanti, abito qui vicino! Non ce n’è assolutamente bisogno”), si sedette accanto al sedile del guidatore.
“Che strada prendo?”
“La cinquantaquattresima a destra, poi prendi la terza”.
Obbedii.
Stemmo in silenzio per un po’ non sapendo di che parlare, poi decisi di fare conversazione.  
“Comunque… come ti stai trovando qui a scuola?”
“Bene, grazie. Mi piace molto la nostra classe, sono tutti molto simpatici. E poi trovo i professori bravissimi, sul serio! Soprattutto il Brunner”.
“Bene, sono contento”.
Chiacchierammo del più e del meno, trovandoci non mi ricordo come a parlare di Talia e Luke.
“È chiaro che lei gli piace” annuì Annabeth. “Ma Talia è complicata e io non la conosco ancora bene, potrebbe essere che le piaccia ma non lo vuole ammettere. Forse, però, c’è qualcos’altro sotto”.
“Forse un’intricata storia di sesso” suggerii io, illuminandomi. “Senti un po’: sono stati fidanzati, lei lo lascia ma lui non lo accetta, lei si arrabbia e lo odia, poi continuano a tira e molla per l’eternità, fino ad ora che sono abbastanza maturi per una relazione seria”.
Annabeth rise. “Che teoria! Potrebbe essere, però”. Sembrò pensarci sopra. “Potremmo farli mettere insieme”.
“Penso che la tattica di Luke sia di scoparsela mentre fanno ripetizioni. Ne sono quasi certo”.
Lei fece una smorfia.
“Che idiota. E meno male che ha invitato un centinaio di volte me a casa sua…”
“Davvero? A noi ha detto che prima voleva chiederti di andare al cinema, poi, acquistata un po’ di familiarità, scoparti. Chissà, magari vuole che siate scopamici”.
Lei arricciò il naso. “Ma pensa solo al sesso?”.
“Pure al mangiare. E a Talia. E… sì, penso basta”.
“Quando si dice elasticità di pensiero…” ironizzò lei, ma stava sorridendo.
***
“È facile, tranquillo: hai solo bisogno di capire dove sbagli, poi sarà una cavolata. Prova a rileggerla ancora una volta, un errore ci dev’essere se non ti viene. Innanzitutto riguarda se hai trascritto bene il testo…”
“Ok. Aspetta un attimo…”
Confrontai il testo dell’equazione nel libro e la mia, mi parvero identiche.
“Sono uguali. Adesso…”
“Rifalla: stai attento soprattutto nei passaggi che prima non ti hanno convinto o che ti hanno confuso”.
“Va bene”.
La rifeci su un foglietto di brutta.
“Oh… capito” dissi con una punta di imbarazzo. “Ho sbagliato di nuovo il segno”.
Annabeth rise, e si passò le mani nei capelli, poi se li legò. Era così bella.
“Tranquillo, scommetto che la prossima ti verrà”. Guardò l’orologio. “Sono le quattro: se questa ti viene continuiamo mercoledì e ora mangiamo qualcosa, ho fame. Dai, prova”.
“Subito”.
La ragazza scelse una nuova equazione e iniziai subito a farla, concentrato.
Dire che Annabeth era un buon incentivo per studiare è un eufemismo.
Dieci minuti più tardi, brandivo vittorioso il foglio, con il risultato cerchiato, evidenziato e sottolineato.
“Fatto” dissi soddisfatto. “E mi è venuta. Andiamo a mangiare?”
“Sì, va bene” rise lei.
Ci alzammo in piedi e andammo in cucina. Annabeth aprì una confezione di biscotti al cioccolato e panna comprati freschi in pasticceria, ne prese uno e mi passò il pacchetto.
“Sono buonissimi, anche se probabilmente ipercalorici” disse. “Ce li ha consigliati il nostro vicino”.
Ne assaggiai uno. “Sono veramente buonissimi!” esclamai contento.
Lei rise.
“Talia arriva tra un’oretta. Che facciamo?”
“Mm… film?”
“Che ne dici di Now You See Me?” propose lei.
“Vada per Now You See Me” acconsentii io.
“Vieni, ce l’ho in dvd. È davvero bello, il film preferito della mia matrigna”.
La guardai sorpreso, mentre andavamo in salotto (io tenendo saldamente in mano la scatola di biscotti).
“Non pensavo tuo padre fosse risposato. Tua madre è…”
“No, non è morta. È ancora viva. La vedo qualche volta, quando mi capita. Sai, all’inizio ci sono stati alcuni problemi tra di noi – tra me e Susan, intendo – ma adesso ci siamo chiarite”.
“Che genere di problemi? Ovviamente se ti va di parlarne”.
Annabeth scrollò le spalle. Non vedevo la sua espressione perché stava mettendo il dvd nel televisore.
“Sì, non fa niente. Da piccola mi odiava, perché ero rimasta un po’ traumatizzata dalla divisione tra mamma e papà, e perciò avevo fatto il possibile per far separare papà e Susan. Aveva tutte le ragioni per odiarmi, le facevo ogni genere di scherzo. All’età di sette anni sono scappata di casa, visto che mi sembrava che la situazione fosse degenerata. Poi sono riusciti a ritrovarmi, e pian piano, crescendo, sono andata sempre più d’accordo con lei. Siamo amiche”.
Si tirò su e mi sorrise, venendosi a sedere accanto a me. Accese la tv e poi premette il tasto play.
“Ma ora guardiamo il film” disse sorridendomi, e io annuii.
Volevo dirle cosa pensavo del suo comportamento: era stata coraggiosa a scappare di casa, e, anche se, col senno del poi, le avrei detto che era stata stupida, la capivo benissimo. Pure io avevo avuto un’infanzia simile. Rimasi zitto.
“Ma quello è l’attore di Nelson Mandela!” esclamai a un certo punto. 
“Sì. Si chiama Morgan Freeman” sbuffò lei, con un sorrisetto sulle labbra.
“Lo so come si chiama” mi imbronciai io.
Lei rise per l’ennesima volta in quella giornata.
Quarantacinque minuti dopo, misi pausa e dissi: “Ok. Devo capire qualche cosetta: Nelson Mandela è il cattivo, Sherlock Holmes è un idiota, Leon, La Roscia, il mentalista e Denny sono dei criminali fichissimi e l’amica di Sherlock Holmes ti assomiglia. Ho saltato qualcosa?”
Annabeth sembrava confusa.
“Cosa?”
“Sono soprannomi. È divertente creare soprannomi”.
“Ah. Chi è Leon?”
“Il tizio morto. Cioè… che tutti pensano sia morto ma io so che non è morto. Il fidanzato di Violetta. Ci assomiglia”.
Soffocò un risolino. “Vedi Violetta?”
“Ti pare? La vede mia cugina da parte di Paul” sbuffai, certo di essere arrossito.
“Paul?”
“Il mio patrigno” spiegai. “Non sei l’unica ad avere i genitori separati”.
“Non lo sapevo” mormorò lei.
“Non te l’ho detto, mi avresti davvero inquietato se l’avessi saputo” scherzai, cercando di alleggerire la tensione.
Lei sorrise.
“Ti va di parlarne? Mi sono sempre chiesta se fossi l’unica adolescente con genitori separati a sentirmi così… così” finì, forse non trovando un termine adatto.
“Sono nato quando i miei genitori ancora non si erano sposati. Mancava poco al matrimonio, così poco che mia madre aveva scelto due vestiti da sposa, uno dei due adatto a una donna incinta, nel caso io non fossi ancora nato. Poi mio padre partì per lavoro nell’Atlantico, a un paio di settimane dal matrimonio. Amava molto il mare. Ovviamente era già tutto programmato, Poseidone ci sarebbe rimasto solo per quattro giorni. Solo che incapparono in una tempesta e la nave affondò”.
Rimanemmo in silenzio, un silenzio denso di significato. Tenevo lo sguardo basso sulle mie mani, perciò non potevo vedere l’espressione di Annabeth.
“Risulta disperso in mare. Non morto. Solo disperso”.
Annabeth rimase immobile, probabilmente a guardarmi. Fissai lo sguardo nel vuoto, ricordando il dolore di mia madre quando le chiedevo di papà. Lo amava molto.
“Oh, Percy” disse Annabeth. Non c’era compassione nel suo tono. Solo tristezza. “Non puoi credere davvero che tornerà”.
“Come…”
“Disperso in mare. Non morto. L’hai detto tu. Ma devi capire che non significa niente. È che… scusa, non voglio essere indelicata”.
Sospirò.
“No, vai avanti” la incoraggiai.
Quasi inconsciamente, fece scivolare una mano nella mia.
“Va bene. Disperso significa solo che non hanno ritrovato il corpo. Sai cosa? Penso che sia la cosa migliore. Non sotterrato a terra, ma in acqua, nell’elemento che amava. E francamente, te lo dico per esperienza, è molto meglio rassegnarsi a una morte che aspettare giorno per giorno il ritorno di una persona”.
Sentii le mie labbra tendersi in un sorriso, che, nonostante la gravità della situazione, non riuscii a trattenere.
“Dovresti fare la psicologa, Annabeth Chase”.
Sentii provenire da lei una specie di sbuffo divertito. Sciolse la presa delle nostre mani e fece ricominciare il film.
Venti minuti dopo, il campanello suonò.
Con un lento stiracchiamento, Annabeth si alzò in piedi e rispose al citofono.
“Tals?”. Aspettò un po’, ascoltando la risposta dell’amica. “Oppure puoi salire. Qui c’è già Percy, stavamo guardando Now You See Me”. Pausa. “Sì, sì. Chissene importa. Tranquilla, non disturbi”. Pausa. “Ok, ciao”.
“Sta salendo” disse, tornando a sedersi vicino a me.
“Ok”.
Tornò a vedere il film. Era molto concentrata, perciò la potei osservare di sottecchi, senza farmi notare.
Aveva le sopracciglia leggermente inarcate, gli occhi grigi brillanti alla luce dello schermo. La sua pelle sembrava più pallida in quel contesto, nonostante la sua abbronzatura naturale. Era bellissima.
Poi pensai che probabilmente, anche se avessi trovato il coraggio di invitarla ad uscire, avrebbe declinato l’invito come per gli altri mille, e avrei rovinato l’amicizia che si stava formando. Fui travolto da un’ondata di tristezza.
***
Quella sera tornai a casa stanco. Mia madre e Paul stavano guardando la televisione, e tolsero il volume quando arrivai.
“Ciao, tesoro” mi salutò mamma. “Come è andata?”
“Bene. Che c’è per cena?”
“Oh, Paul prima è passato da sua sorella, gli ha dato le sue melanzane sott’olio”.
“Le melanzane di Hope!” saltai su. “Le adoro”.
Paul rise.
“Marianne ti saluta, Perce” mi disse. “Ti invita a passare un pranzo da loro. Ti va bene?”
Passare una giornata con una ragazzina di dieci anni che probabilmente mi avrebbe scassato i timpani – e qualcos’altro – con le sue chiacchere su Violetta e Leon.
“Sì, certo” dissi con naturalezza. “Va bene. Io salgo, vado a farmi una doccia”.
In bagno, mi appoggiai con entrambe le mani sul lavandino e, sospirando, mi guardai allo specchio, sovrappensiero. Valutai le vari opzioni.
Se avessi invitato Annabeth al cinema, avrebbe potuto rifiutare, oppure avrebbe potuto accettare. C’era il settanta percento delle possibilità che avrebbe rifiutato, tenendo conto delle esperienze con gli altri ragazzi, e c’era il trenta percento che avrebbe accettato, tenendo conto del fatto che lei era intelligente e capiva quando la gente le chiedeva di uscire per scoparsela o perché gli piaceva veramente.
Comunque: se avesse detto di no avremmo rovinato la nostra amicizia – e non ci tenevo proprio – e molto probabilmente non ci saremmo parlati più, se non con molto imbarazzo. Se avesse detto di sì, avrebbe significato che io un po’ le piacevo, e, girando bene le carte in tavola, forse saremmo diventati una coppia fissa.
Se non l’avessi invitata, c’era l’ottanta per cento che rimanessimo amici, e il venti percento che le cose si evolvessero da sole e che ci fidanzassimo per corso naturale delle cose.
A conti fatti, avevo più probabilità di coppia fissa con un appuntamento, ma questo se io le fossi piaciuto. Se, invece, non le fossi piaciuto, avevo più probabilità di rimanere accanto a lei come amico non invitandola al cinema.
Soddisfatto, scrissi tutti i miei ingegnosi calcoli su un foglio, poi lo rilessi più volte.
in fondo, dopo un’accurata analisi, scrissi: Probabilità amicizia > Probabilità amore.
Perciò decisi di lasciare le cose come stavano, e scesi a cena.

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