Capitolo 17

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Eravamo distesi sull’ampio tappeto del soggiorno di casa mia, ma poco lontano c’erano i nostri quaderni di algebra e un libro aperto.
La testa di Annabeth era appoggiata sulla mia pancia e io le accarezzavo i capelli, lei intanto parlava e gesticolava animatamente, presa da ciò che diceva.
“… Sai, Taipei 101 è uno degli edifici più alti del mondo. Alcuni dicono che è proprio il più alto, contando la guglia – alta sessanta metri – ma in realtà non è tecnicamente così. Insomma, la guglia non è propriamente un edificio, no? Perciò Taipei 101 può essere chiamato solo la struttura più alta del mondo. Interessante, non credi?”
Si tirò su e si mantenne sui gomiti, rivolgendomi un sorriso. Sentii un vago senso di vuoto quando il suo peso si spostò dalla mia pancia.
“Ma non ti stanchi mai dell’architettura?” chiesi io, con un sorriso dolce.
Lei divenne seria. “Assolutamente no. Come potrei? L’architettura è qualcosa che varia a seconda dei popoli, delle usanze, dei tempi. È come un enorme meccanismo che gira e rigira su sé stesso, cercando la perfezione e non trovandola mai. Secondo me, l’unica cosa al mondo che è riuscita a creare qualcosa di permanente, che ha attraversato i secoli rimanendo immutato e solido. Pensa al Partenone”.
Io mi misi più comodo, poi le presi la mano destra e accarezzai le dita, giochicchiandoci.
“Hai ragione”.
Si sdraiò accanto a me e posò la guancia sulla mia spalla.
“Hai un buon odore” affermò dopo un po’. “Come… di oceano”.
Io sorrisi. “Davvero?”
“Mm-mm”.
Il pensiero sconfortante dei compiti da fare mi punzecchiò la testa, ma lo scacciai. Volevo stare con Annabeth.
“Sai” dissi a un certo punto. “Oggi pomeriggio dovrebbe arrivare a casa Tyson”.
“Ah, già. Il bambino di sette anni”.
“Sì”.
“Sei preoccupato?”
Una pausa.
“Sono preoccupato di quanto tu mi conosca bene, Sapientona!” esclamai, facendola ridere. “Se poi mi voltassi le spalle, sapresti già tutti i miei punti deboli… questo pericolo va annientato”.
“Oh, ti prego, no!” disse lei, melodrammatica.
Mi tirai su e iniziai a farle il solletico sulla pancia e dietro le ginocchia, mentre lei rideva come una pazza e cercava di spingermi via.
“testa d’alghe!” strillò a un certo punto, ormai senza fiato.
Ci baciammo.
“Come farei senza di te?” chiese lei.
“Come farei io senza di te?” replicai io.
***
Tyson era piuttosto alto, per la sua età. Aveva i capelli marroni che gli spendevano disordinati sulla fronte ampia, che gli coprivano quasi completamente gli occhi, anch’essi castani.
Indossava una maglia da basketball che gli stava un paio di misure più grandi, e dei jeans sgualciti.
Se avessi dovuto tirare a indovinare, avrei detto, guardando il suo fisico, che avesse almeno nove anni.
“Benvenuto, campione” gli dissi stringendogli la mano, quando entrò dalla porta di casa con mamma e Paul.
Lui sorrise ed esclamò: “Tu sei Percy!”
“Sì, sono io” risposi, lanciando un’occhiata a mia madre, che guardava teneramente il bambino. “Mamma, vi aiuto con le buste della spesa?”
“Oh, grazie Percy. Abbiamo deciso di preparare una grande cena per festeggiare l’arrivo di Tyson!”
“Uh, bello” dissi, subito allegro. “Che hai deciso di fare?”
Mia madre, se non lo sapete, è una cuoca straordinaria. E se lei dice che vuole fare una grande cena, significa che cucinerà abbastanza da sfamare l’Africa per dieci anni lasciando tutti decisamente sazi.
“Mangeremo all’italiana, Tyson mi ha detto che non l’ha mai assaggiata”.
“Povero” dissi, scuotendo la testa. E poi, rivolgendomi a lui: “Vedrai che la cucina di mamma ti farà sognare. Adesso ti porto a vedere la tua stanza”.
Lui annuì, obbediente, con un grande sorriso stampato in faccia.
Le buste da portare erano quattro, enormi, mi ci volle un po’ per portarle in cucina. Quando finii, feci un cenno del capo a Tyson e salimmo insieme al piano di sopra.
Erano mesi che aiutavo Sally e Paul a organizzare la camera del bambino, e il risultato era piaciuto a tutti e tre.
Prima che la svuotassimo, era una stanza più o meno inutile, con un grosso divano e pile e pile di scatoloni impilati l’uno sull’altro, a contenere vecchi miei giocattoli e altre cianfrusaglie che non ci andava di buttare.
Nella parete in fondo c’era una finestra, con accanto il letto, sistemato in modo che lo svegliassero i raggi del sole, la mattina, a meno che non chiudesse le tende.
Accanto al letto c’era un grande armadio e un comodino. La parte che mi piaceva di più era l’angolo dedicato alla scrivania: questa era di legno chiaro, piuttosto larga, dove avevamo sistemato anche un computer portatile che mamma non usava più ma che funzionava ancora bene, e sopra, c’era un pannello di sughero con i bordi dipinti in azzurro. Ci aspettavamo che ci attaccasse sopra le sue foto preferite e i suoi progetti.
Lui ne fu entusiasta.
***
Quella sera tardi, alle undici, ero ancora impegnato a fare i miei compiti di algebra, visto che, quando c’era Annabeth, mi ero rifiutato di farli ottenendo così un sacco di tempo per noi due, così all’inizio non notai che in camera mia era entrato qualcuno.
“Percy?” mi chiamò la vocina di Tyson.
Feci un balzo di tre metri.
“Ommioddio!”
Guardai meglio chi avevo davanti.
“Oh. Campione, non farlo più. Ti prego. O rischio un infarto”.
Quel piccolo irritante ragazzino stava ridendo. Misi su il broncio.
“Cosa c’è?” cercai di essere gentile.
Lui si fece esitante.
“È che… ho gli incubi e non riesco a dormire. Stavo cercando Sally e Paul ma poi ho visto che la luce di camera tua era ancora accesa”.
“Ah. Mm. Be’, allora… sì, vai sul mio letto. Io sto ancora facendo i compiti”.
Lui si avvicinò alla scrivania, guardando con aria intelligente il quaderno, e poi, puntando il dito, mi disse: “Qui hai sbagliato”.
“Cosa?”
“Il risultato dell’equazione è sbagliato. Non fa 5a23ab”.
“Ah”.
“Vedi? Hai sbagliato qui… dovresti moltiplicare tutto per sei, invece che per tre”.
Lo guardai come se fosse pazzo.
“E tu come lo sai?”
Fece spallucce, arrossendo. “Mi piace la matematica”.
“Sei bravo”.
Sembrò contento del complimento. Annuì e si diresse verso il letto, accoccolandosi sotto le coperte.
“Buonanotte” bofonchiò.
“Ehm, buonanotte” dissi io.
Dopo un po’ mi andai a sdraiare vicino a lui, distrutto.
Dormì tranquillo per tutta la notte. 


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