Capitolo 13

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Quando tornai a casa ero piuttosto di buonumore, per il fatto che io ed Annabeth ci fossimo dati dei soprannomi e perché lei si era finta la mia ragazza.
Trovai mia madre e Paul in soggiorno a lavorare sul romanzo, e sembravano stare così bene che per poco non mi sentii decisamente di troppo. Poi mamma alzò lo sguardo, mi sorrise e mi rivolse un ciao tesoro.
“Ciao mamma. Ciao Paul. Io vado in camera”.
“Oh, Perce!” mi chiamò Paul quando ormai stavo sulle scale. “Ha chiamato di nuovo Hope. Pare che domani pomeriggio abbia una riunione di lavoro, e intanto Mark sta fuori tutta la giornata, sempre per lavoro, e non possono lasciare Marianne da sola a casa. Ci hanno chiesto se potevi prendertene cura te: devi solo darle il pranzo e rimanere con lei fino alle sette. Non hai impegni, vero?”
Ma certo. Devi solo darle il pranzo e stare con lei fino alle sette. Non è un problema! A fine giornata, nella migliore possibilità, ti troverai truccato come una ragazza e con una parrucca in testa. Che problemi ci sono?
Spostai lo sguardo da Paul a mia madre, con le spalle ormai crollate. L’espressione di mia madre diceva chiaramente che, se avessi avuto degli impegni, avrei fatto meglio a starmene zitto ed accettare.
“Ma ho ripetizioni con Annabeth” protestai flebilmente.
“Be’, se a lei va potete andare entrambi. Così sarà più leggera” propose mamma.
“Non accetterà mai!” esclamai io, angosciato.
Paul mi fissava dispiaciuto. “Percy, lo so che per te è pesante, ma Hope è sempre stata molto gentile con noi, e questa è l’occasione di ricambiare tutto. Per favore?”
Be’, certo. Non sei te quello che deve passare una decina di ore con una ragazzina di dieci anni!
Io sospirai. “E va bene. Le mando un messaggio”.
Mia madre e Paul sorrisero. “Grazie, Percy”.
Quando salii in camera, però, mi accorsi che io non avevo il numero di Annabeth. Mi presi a parolacce da solo per la mia stupidità ed esaminai la rubrica in cerca di qualcuno che potesse darmelo.
Decisi di chiamare Piper, che di sicuro ce lo aveva. Rispose al terzo squillo.
“Pronto, Percy?” mi chiese.
“Ciao. Ti disturbo?”
“No, per niente”.
“Ok. Mi chiedevo se avevi il numero di Annabeth, devo chiederle un favore”.
“Ma certo. Aspetta un secondo…”
Mi dettò il suo numero, poi sentii una risata soffocata di sottofondo.
“Pips, ma c’è Jason con te?” chiesi, con una punta di divertimento.
“Cosa? Cioè. Ehm, sì, perché?”
“Oh, per curiosità. A dopo, grazie ancora e salutami pure Jason”.
“Ok, prego. Ciao!”
Riattaccai e poi mandai un messaggio ad Annabeth.
Ciao, sono Percy. Posso chiamarti?
Mi rispose dopo un paio di minuti.
Certo.
Composi il numero, lei rispose subito.
“Ciao, Percy” mi salutò. Capii dalla voce che sorrideva.
“Ehi, ciao. Ho chiesto il tuo numero a Piper. Senti, ho un favore da chiederti”.
Esitò. “Quale favore?”.
“Be’, diciamo che la mia piccola cugina acquisita ha bisogno di un babysitter e i suoi genitori mi hanno chiamato a compiere quest’ardua impresa. Mi chiedevo se potevi accompagnarmi: almeno mi annoiavo di meno. Comunque, se a te non va, ti dovevo lo stesso chiamare per dirti che domani non potevamo vederci per le ripetizioni”.
“Ah! E io che pensavo che fosse qualcosa di molto peggio. Certo che vengo. Avevi paura di ritrovarti con dei bigodini in testa, la sera?” scherzò.
“Qualcosa del genere” ammisi, a cuore più leggero. “Grazie, Sapientona”.
“Di niente. Ho un idea: di a tua cugina di invitare una sua amichetta, se i genitori sono d’accordo, così almeno loro stanno insieme e sarà meno difficile. Diglielo che siamo in due, a tenerle d’occhio”.
“Ottima idea. Sai, Annabeth, mi è appena venuto in mente che adesso ho ben due favori da ripagarti”.
Lei rise. “Ma dai, non fa niente”.
“Grazie ancora. Così domani, usciti da scuola, andiamo direttamente a prenderle a scuola e mangiamo da lei”.
“Cosa? Dobbiamo preparare il pranzo?”
“Ehm, sì. È un problema?”
“È che io non so cucinare”.
“Ah. Ah, bene. Tranquilla, lo so fare io. Facciamo pasta, qualche patatina fritta e un po’ di pollo alla griglia, se ti va bene”.
“Tu sai cucinare?” chiese Annabeth stupefatta.
“Sì”.
“Non me lo aspettavo” sorrise lei. “Per fortuna”.
Io sorrisi segretamente, soddisfatto. Ero riuscita a stupirla.
Seguì un breve silenzio.
“Io il massimo che saprei fare è mettere nel microonde del cibo cinese”.
“Il cibo cinese non va riscaldato” dissi io.
“Ops” disse lei.
Ridemmo.
“Be’, tanto io non ho mai mangiato cinese” replicò.
“Un giorno ti porterò al cinese” dissi. “È una delle cucine più buone del mondo”. 
***
Il giorno dopo le lezioni sembrarono durare moltissimo. L’unico evento degno di nota era il nuovo distacco tra Luke e Talia: si sorridevano di tanto in tanto, ma non si erano ancora parlati. Dovevo informarmi, così quando suonò l’ultima campanella mi avvicinai a Luke e gli chiesi: “avanti, amico. Ho capito benissimo che è successo qualcosa, dimmi tutto”.
Ma lui mi guardò infastidito e replicò: “Non è successo nulla. Percy, sei più pettegolo delle cheerleader di questa scuola”.
“Dovrei prenderla per un’offesa?” chiesi.
Lui sorrise. “Forse. Ora vai, c’è una certa bionda che ci guarda interrogativa dall’altra parte dell’aula”.
“Ok, allora a dopo. E ricordati che prima o poi mi dovrai spiegare che cosa è successo”.
“Sì, sì. Come no”.
Attraversai la classe e sorrisi ad Annabeth.
“Stavo chiedendo informazioni sul nuovo stato della loro relazione. Hai visto i progressi anche tu, uh?”
“Certo. Che ti ha risposto?”
“Che sono più pettegolo di Drew” risposi depresso.
Lei rise.
“Dai, andiamo, o faremo tardi” mi spronò. Mi afferrò una mano e mi trascinò correndo verso il portone e poi verso la mia macchina.
Adoravo quando faceva così. Adoravo quella specie di entusiasmo che la prendeva quando bisognava fare qualcosa di preciso e ordinato.
Tolsi la sicura ed entrammo in macchina, in dieci minuti eravamo arrivati alla scuola media A. Manzoni.
Gli alunni stavano già incominciando ad uscire dall’ingresso principale, sondai con lo sguardo la folla di ragazzini alla ricerca di Marianne.
“Com’è fatta?” mi chiese Annabeth.
“Ha i capelli neri riccissimi e gli occhi azzurri, è chiara di pelle”.
“Oh. Sta là. Certo che è proprio una bella bambina”.
Io seguii il suo sguardo ed annuii. “Già. Ti avverto, non la chiamare bambina o le conseguenze potrebbero essere piuttosto gravi”.
“Va bene. Andiamo a prenderla”.
“Ok”.
“Scusa, ma alla fine viene pure la sua compagna?”
“Sì, sì. Si chiama Emma”.
“Oh, bene. Meno lavoro per noi. In realtà più, però meno faticoso se stanno insieme in una stanza a giocare”.
“Già”.
Quando le arrivammo davanti, Marianne mi sorrise allegramente e mi buttò le braccia al collo.
“Percy!” esclamò, contenta. “Che bello, è da un sacco di tempo che non ci vediamo”.
“Ciao, piccola” la salutai, sorridendo. “Come va?”
“Benissimo, te?”
“Oh, molto bene. Lei comunque è Annabeth, una mia amica. C’è Emma?”
“Sì, arriva subito”.
Emma arrivò nel giro di cinque minuti, poi salimmo tutti in macchina e andammo a casa di Marianne.
Emma e lei andarono subito in camera, io e Annabeth andammo in cucina a preparare il pranzo.
“Dove hai imparato a cucinare?” mi chiese interessata, osservandomi mentre aprivo la credenza e iniziavo a mettere della pasta sul fuoco.
“Diciamo che un po’ me lo ha insegnato mia madre, poi una volta mi hanno costretto a preparare pranzo e cena tutti i giorni per una settimana, per punizione. Così ho imparato a cavarmela da solo”.
“Forte. Io invece sono sempre stata negata. Sono goffissima in cucina”.
“Davvero?” la guardai stupito. “Non dai l’idea di una goffa. Sei sempre così precisa!”
Lei rise. “E invece sì. Diciamo che in campo culinario sarebbe più affidabile un elefante di me”.
“Oh, bene” scherzai io. “Ho proprio una bella compagnia, allora!”
Lei mi diede un leggero pugno sul braccio e si avvicinò ai fornelli, rimboccandosi le maniche. “Avanti, dimmi che devo fare!”
Io la feci indietreggiare. “Innanzitutto, non bruciarti col fuoco dei fornelli. Mm… apparecchia – i piatti sono in quello scaffale – e poi prendi l’acqua”.
Lei annuì.
“Poi quando hai fatto taglia le patate e mettile in una pentola con un po’ di olio, sale e rosmarino”.
“Va bene”.
Dopo un po’ chiamai Marianne ed Emma, che arrivarono di corsa ridendo.
“Cosa c’è per pranzo?” chiese Marianne saltellando attorno  alla pentola della pasta.
“Pasta in bianco, pollo e patatine fritte” risposi. “Va bene?”
“Oh, sì!” rispose Marianne. “È il nostro piatto preferito, pollo e patatine”.
“Perfetto. Ora aiutate Annabeth a prendere i bicchieri e le forchette” dissi.
Emma annuì, e insieme a Mary si avvicinarono ad Annabeth, che mi sorrise di soppiatto.
Era tutto così tranquillo, fino a quando Marianne porse quella rumorosa domanda.
“Ma tu sei la fidanzata di Percy?” chiese ad Annabeth, scambiando un’occhiata significativa a Emma.
Lei rise ed io arrossii.
“No, no. Ma io posso dire che lui è il mio amico speciale”.
“Uh, non ero informato” interloquii io. “Molto interessante, a dir poco”.
Annabeth mi fece un sorrisetto.
“Ma te per lui chi sei?” chiese Marianne, aggrappandosi timidamente al braccio della bionda.
Io sorrisi e la guardai negli occhi.
“Lei è la mia amica speciale”. 

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