Capitolo 23

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L’agglomerato ospedaliero Saint Jesus era famoso a New York per il fatto che comprendesse anche delle cliniche private.
Perciò, il Saint Jesus aveva varie sedi, tra cui alcune cliniche private e due centri pubblici piuttosto grandi.
Non sapevo dove dirigermi – probabilmente Annabeth lo aveva previsto, era sempre stata molto brava a manovrare le situazioni a suo piacimento – ma non capivo assolutamente perché non volesse che la raggiungessi.
Mentre stringevo il cellulare tra le mani, mi chiesi se in realtà il suo stato fosse ben più grave di quanto avessi immaginato, tanto da farla rimanere a dormire in ospedale.
Decisi alla fine di chiamare il cellulare della madre, che mi aveva dato Annabeth durante la scorsa settimana, e lei, pur di malavoglia, mi disse dove si trovava la mia ragazza.
Intendiamoci: era la mia ragazza, avevo tutto il diritto di vederla.
Appena ebbi l’informazione, partii a razzo saettando nel traffico tipico della Grande Mela, e nel giro di mezz’oretta avevo attraversato mezza città ed ero arrivato a destinazione.
Chiesi all’infermiera seduta all’ingresso quale fosse la sala dove risiedeva Annabeth.
Lei mi guardò con sospetto.
“Sei un parente?” chiese, con fare inquisitore.
“Sì” risposi senza esitazione. Poi, per essere più credibile, aggiunsi: “Il cugino. In che stanza sta?”
“Primo piano, corridoio a destra. Stanza numero dodici”.
Salii a balzi le scale, però, quando mi trovai davanti l’immacolata porta con su scritto il numero dodici, esitai.
Ero davvero pronto a vederla? Si sarebbe arrabbiata?
Con un sospiro, bussai.
“Avanti” rispose lei.
Socchiusi la porta e sbirciai dentro, come un bambino in preda ai sensi di colpa dopo aver rubato il barattolo della nutella.
Lei era distesa sul letto, con una flebo attaccata al polso. Aveva i capelli arruffati e in disordine, come se non se li pettinasse da un po’ – insomma, il mio look quotidiano – e indossava una specie di camicia da notte bianca. Stava leggendo un libro.
Quando alzò gli occhi, sembrava dispiaciuta e forse un po’ sollevata.
“Testa d’alghe” mormorò.
“Ehi” dissi io, sedendomi sulla sedia posta vicino al suo letto.
Lei appoggiò il libro al comodino e si torse le mani, guardando in basso. Seguii i suoi movimenti nel terrore che si potesse staccare la flebo dal polso, ma non accadde.
“Sapevo saresti venuto”.
“Certo”.
Alzò lo sguardo.
“Devi andartene immediatamente, non voglio che tu mi veda così”.
“Annabeth, non ho nessuna intenzione di andarmene”.
Provai a prenderle la mano, ma lei la ritrasse come scottata.
Lei si alzò di scatto a sedere, gli occhi lampeggianti.
“Ma non capisci? Mi dà fastidio che tu sia qui! Non te ne frega niente di me?”
Le sue parole furono come una pugnalata al cuore.
Mentre realizzava quello che aveva appena detto, spalancò gli occhi e si portò una mano alla bocca. L’istante successivo, scoppiò a piangere.
Si accasciò sul cuscino, cercando di asciugarsi le guance già bagnate, strofinandosi gli occhi.
“Sono una stronza” bisbigliò. “Ti prego, vai via”.
Guardandola, le perdonai tutto. Le accarezzai i capelli.
“Non vuoi davvero che me ne vada”.
“No” rispose lei.
“Non piangere” continuai a sussurrarle, accarezzandole le guance e i capelli. “Shh. Non piangere”.
Quando si calmò, la baciai.
Rimanemmo un po’ in silenzio, e io, non volendo parlare di ciò che veramente contava, tirai fuori il libro appena comprato in libreria dalla busta.
“Ti ho portato questo. Spero che ti piaccia”.
Lei lo prese in mano, con la bocca leggermente aperta, poi sorrise mostrando i denti.
“Oh mio dio! Percy, potrei amarti solo per questo singolo regalo. Lo sai che questa è un’edizione rarissima del libro che cerco da non si sa più da quanto tempo?”
“Quindi ti piace” dissi sollevato.
“Se mi piace? Scherzi?”
Risi. “Dovresti vedere la tua faccia in questo momento” dissi.
Lei sorrise e lesse avidamente le prime righe.
“Oh mio dio. Non riesco ancora a crederci!”
La lasciai leggere un paio di pagine, felice di vederla felice, ma poi lei si fermò, di nuovo triste, e mise giù il libro.
“Credo di doverti delle spiegazioni” disse nervosamente.
“Se non ti va di parlarne, ti capisco” tentai. “Sul serio…”
“No, no. È giusto che tu sappia. D'altronde, se il mio ragazzo, no?”
“Questo è vero” ammisi sorridendole.
Lei sorrise, e ne fui felice, ma poi tornò seria.
“Io… sono malata di cancro” disse.
Rimasi senza parole. Quando vide che non dicevo nulla, continuò.
“Me lo hanno diagnosticato due anni fa, perciò sono fortunata ad essere ancora… be’, viva. Ma sono stata in terapia intensiva per un po’, perciò… non credo manchi molto”.
Finì la frase sussurrando.
Non riuscivo a realizzare le sue parole. Un mondo senza di lei sarebbe sembrato troppo freddo e buio per poter essere abitato. Non potevo contemplare una simile prospettiva.
“Oh, no” esclamai, alzandomi di scatto.
Annabeth mi fissò, terrorizzata. “Ti prego, non andartene” mi supplicò.
Iniziai a camminare avanti e indietro per la sua stanza, a grandi e furiose falcate.
“Perché non me l’hai detto?” chiesi poi, girandomi verso di lei.
“Non ne ho avuto il coraggio” sussurrò, torcendosi le mani. “Tu mi piacevi, e mi dedicavi così tante attenzioni… pensavo che avrei rovinato tutto. Sono stata una stupida”.
Non riuscivo a vederla così dispiaciuta.
Cioè, lei era quella che stava per morire, e si dispiaceva se questo mi provocava dolore?
Mi inginocchiai davanti a lei e le accarezzai una lacrima che era sfuggita ai suoi bellissimi occhi.
"Annabeth” mormorai. “Sapientona, amore, non hai rovinato niente. Se me lo avessi detto, ti avrei potuto aiutare sin dall’inizio”.
Lei mi guardò a lungo e mi sembrò quasi che si volesse ricordare ogni dettaglio del mio volto, come se non lo avrebbe potuto più vedere. Quella prospettiva non mi piacque.
“Su, dai” dissi allora, esprimendo falsa allegria. “Parlami delle tue strane opere architettoniche”.
Lei sorrise forzatamente e mi fece spazio nel letto, per farmi sedere accanto a lei, e iniziammo a sfogliare il libro che le avevo comprato.
L’avrei anche potuto giurare su Dio: le avrei fatto vivere i giorni che le rimanevano nel modo migliore possibile.


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