Capitolo 25

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“E quello che dovrebbe essere?”
“La cuccia per il cane, no?”
“A me sembra più un materasso”.
Il tranquillo commento di Paul sulla cuccia che io e Tyson avevamo comprato per la signora O’Leary fece andare mamma completamente fuori di testa.
Dopo che la ebbimo fatta passare per la porta – forse un tantino stretta – e mamma la ebbe chiusa, probabilmente per evitare ai vicini la sua sfuriata, si voltò verso di noi e spostò la modalità gioco su mamma-ninja.
 “Tu!” strillò nella mia direzione. “Avevi detto che guardavate soltanto!”
Io arretrai e alzai le mani in segno di resa, preso alla sprovvista.
“Ma tu eri d’accordo! E poi non l’ho comprato…”
“E allora per che cos’è il materasso?”
“Per il cane, te l’ho detto!”
“E quanto è grande il cane?”
“Ehm…”
“Perseus Jackson!”
Tyson scappò di sopra, e Paul si avvicinò a mamma, preoccupato.
“Tesoro, non credo che…”
Mamma lo fulminò con un’occhiataccia e prese fiato, probabilmente per continuare ad inveire contro di me.
Io arretrai ancora, chiedendomi se fosse più grave un salto dalla finestra da cinque piani oppure la sfuriata di mamma.
Ma proprio in quel momento il mio cellulare squillò, salvandomi dal ricorrere a certe decisioni drastiche.
Lanciai uno sguardo esultante a Paul e mamma e presi il cellulare. La faccia di mamma era impagabile.
Era Annabeth.
“Pronto?” chiesi sorridendo.
“Percy”.
La sua voce flebile mi fece spaventare.
“Che c’è? Ti senti molto male?” chiesi subito, afferrando il telefono di casa se fosse stato necessario chiamare un’ambulanza.
Mamma mi affiancò subito, preoccupata. Paul fece la stessa cosa.
“No, tranquillo”.
“Ah. Dio, mi hai fatto spaventare”.
“Scusa. Mi sento sola” sussurrò.
Sembrava tanto triste…
“Sei a casa?”
“Sì, vogliono farmi rimanere il più possibile a casa mia prima che… lo sai”.
Lo sapevo.
“Passo a trovarti” esclamai senza riuscire a trattenermi. “Così ti preparo anche qualcosa di buono per pranzo”.
“Grazie, Percy” fece lei, e capii che stava sorridendo.
Riattaccai. Guardai i miei genitori.
“Io esco” annunciai, presi la giacca a vento e uscii.
***
Mentre parcheggiavo la macchina sotto la casa di Annabeth, provai a pensare a come sarebbe stata la vita senza di lei.
Svegliarmi la mattina, andare a scuola senza più nemmeno la motivazione di vedere il suo sorriso.
Fare i compiti di matematica da solo.
Passare i pomeriggi a giocare alla play come facevo prima.
Non sentirla più parlare di architettura e tutte quelle diavolerie edilizie di qui era esperta.
Non sentire più il sapore delle sue labbra.
Cazzo, non ce la potevo fare.
***
Appena entrai in camera le catturai le labbra con un bacio lungo.
Quando mi staccai, era un po’ rossa.
“A che è dovuto tanto trasporto?” chiese sorridendomi.
Era pallida, e mi pareva scheletrica. Sembrava molto più stanca del solito.
“Non lo so” sussurrai, e la baciai di nuovo. “Mi mancherai un sacco”.
Mi poggiò una mano sulla spalla e mi staccai subito, deciso ad assecondarla.
Aveva il volto sprofondato nel cuscino.
“Percy…” sussurrò.
Iniziò a piangere.
“Shh, no” mormorai.
Mi stringeva il cuore a vederla così, era troppo.
“Ho sentito il dottore dire ai miei che morirò probabilmente entro giovedì” disse, mentre le lacrime le scorrevano per le guance.
Non faceva niente per fermarle.
Mi chiesi se stesse cercando di memorizzare la sensazione delle lacrime sulla pelle.
Una delle tante che di lì a poco avrebbe perso.
“Ti amo tantissimo” le dissi. “Ti amo”.
“Anche io ti amo, testa d’alghe” singhiozzò lei, abbracciandomi con slancio.
“Non potrò mai diventare architetto” disse, la voce deformata dalla disperazione. “Non potrò mai sposarmi e avere figli da accudire… non sarò mai madre”.
“Shh…”
Mi strinse più di prima.
“Hai reso queste settimane le più belle della mia vita" continuò tra le lacrime. "Percy..."
E io continuai ad accarezzarle la schiena con movimenti circolari.


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