Capitolo 20

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Con la macchina tornammo da mio padre, John e Shelley al tramonto. Avevamo già visto tre case e in tutte non avevamo trovato molto. E per non destare sospetti decidemmo di tornare prima dell'arrivo della notte.
Entrammo e, come mi aspettavo, tutti erano preoccupati. «Dove eravate andati voi due?» squittì Shelley venendomi incontro e abbracciandomi.
«Beh ecco...» iniziai ma Tom vedendomi in difficoltà mi aiutò.
«Fuga romantica.» non sapevo se lo disse per scherzare o per coprirci o se lo pensava davvero. Fatto sta che non dissi nulla.
«Davvero?» chiese la ragazza guardandomi. D'un tratto, avvampai sentendomi alle strette e in imbarazzo per quello che aveva detto Thomas. Il rossore però senza farlo di proposito contribuì a rafforzare la bugia di Tom.
Shelley ci guardò in modo strano prima di allontanarsi. Aveva un'espressione come se non aspettasse di sentire altro. Sorrideva e ci guardava come avrebbe guardato due piccioncini.
Rabbrividii quando quel suo sguardo ci squadrò.
Ma fortunatamente John interruppe quella... cosa che stava facendo Shelley. «Cavolo Sam non farmi più questi scherzi...» si posò una mano sul petto, all'altezza del cuore.
«Scusa io...» dissi, ma Shelley intervenne.
«John lasciali stare, stavano insieme» ed ecco ancora quell'espressione «Quindi qualsiasi cosa potevano contare l'uno sull'altro.» concluse prendendo Brice a braccetto e portandolo via sussurrando qualcosa di simile a «Lasciamoli un po' da soli.»
Il cuore stava pian piano perdendo sempre più battiti, quando il mio sguardo incontrò quello di mio padre.
Cosa stava pensando? Non sembrava arrabbiato, ma aveva sentito la "battuta" di Tom?
Feci per avvicinarmi a lui ma Thomas mi prese il polso facendomi fermare. Lo guardai e i suoi occhi mi parlarono. Potevo leggere ciò che mi stava silenziosamente dicendo. "Non andare da lui, non ora" e capii. Quindi feci un passo indietro e andai con lui in terrazzo.
«Sam, ti confido che sono geloso di te. Hai amici che ti vogliono bene nonostante tutto, senza pregiudizi, senza condizioni.»
«Perché dici una cosa del genere?» domandai appoggiandomi alla balaustra della veranda.
«Quando mi dicesti dei tuoi sentimenti verso di me, non potevo crederci.» disse ma una risata delicata e breve da parte mia lo interruppe.
«Ma non ne avevamo già parlato?» chiesi divertito. Tom non mi guardò, aveva gli occhi fissi sul cielo arrossato dal sole. Temevo di aver fatto la cosa sbagliata, interromperlo in quel modo... ma alla fine sorrise divertito. «È vero» disse senza staccare gli occhi dal cielo sopra di noi «ma laciami finire» finalmente il suo sguardo si abbassò per guardarmi. Non pensavo che quel gesto mi avrebbe portato a uno stato di serenità tale da togliermi un peso che non sapevo di avere. «Sam sto cercando di dire che sarei stato io a chiederti di stare insieme, magari in disparte e in un luogo lontano da orecchie indiscrete. Perché, dal primo momento che hai varcato la porta di quel collegio, automaticamente, mi sei piaciuto.» ma ecco che il suo sguardo si allontanò da me sentendo quel peso che solo lui era in grato di alleviare. «Ma ero terrorizzato. Ero stupido al pensare cosa avrebbero detto di me. Non avevo amici con cui aprirmi o confidarmi e questi sentimenti repressi mi hanno fatto stare male.» concluse con testa bassa. Mi avvicinai un poco per imporgli di guardarmi dritto negli occhi. Dimenticai ogni cosa intorno a noi, dimentica dove e con chi eravamo. Ed ecco quei sentimenti, che avevo seppellito anni prima, riaffiorarono più forti che mai. Mi importava solo di lui.
Era giusto? Forse era sbagliato? Non lo sapevo, l'unica cosa di cui ero certo, era che volevo stare il più vicino possibile a Tom. Non ero assolutamente in grado di dimostrare affetto, quindi l'unica cosa che potei fare era portare due dita sulle mie labbra, come se volessi stamparcele sopra, ed infine portai quelle dita sulle labbra di Tom, poggiandole delicatamente come un bacio lieve, quasi sfiorato.
Mi guardò con occhi curiosi, forse non aveva capito cosa stessi facendo, o forse si, fatto sta che gli risposi «Credimi Thomas, non sarà facile stare con una persona come me» il suo sguardo mutò da curioso a confuso, finché non conclusi «Tu promettimi che resterai accanto a me.» sorrise come mai prima d'ora.

La cena finì in fretta nonostante fosse stata in un silenzio imbarazzante. Ogni tanto Shelley cercava di rompere il ghiaccio con qualche frase o domanda a qualcuno nella sala, purtroppo nonostante i suoi sforzi, era tutto invano. Mio padre non mi guardò, non parlò se non per chiedere di passargli qualche ingrediente che era, per sua sfortuna, dall'altra parte del tavolo. «Tutto... va tutto bene?» accumulai tutto il coraggio che avevo per potergli chiedere ciò. Solo allora puntò il suo sguardo nei miei occhi. «No, non va bene niente.» disse alzandosi da tavola e andando in cucina. Erano ancora lì, tutti erano seduti a quel tavolo e solo per un attimo mi pervase il nervosismo misto ad ansia. Strofinai le mani a vicenda per cercare di scaricare un po' d'ansia, ma ad un tratto dissi troppo ad alta voce «Al diavolo.» mentre mi alzai e lo seguii. «Padre.» Avevo sempre ritenuto la parola "padre" completamente priva di sentimento affettivo rispetto a "papà". E mio padre lo sapeva. Si fermò in mezzo al corridoio e si girò. «Che ti prende?» chiesi in difficoltà, non sapendo il vero motivo per cui era così... irrequieto.
«Quando avevi intenzione di dirmi che ti piacevano i ragazzi?» mi chiese quasi deluso di averlo scoperto da uno sconosciuto.
«È questa la tua preoccupazione?» chiesi confuso.
«Si e chissà quante altre cose mi tieni nascoste di te.» aveva un tono ferito che non si addiceva per nulla a papà. Questo mi fece irritare.
«Non tengo nascosto nulla. Non hai mai chiesto. E anche se fosse, non hai mai avuto l'intenzione di conoscermi davvero.» strinsi i pugni, contenendo la rabbia, anche se non servì a molto.
«Che stai dicendo? Certo che voglio sapere tutto di te. Sono tuo padre e tu sei il mio campione.» disse con tono dolce ma ancora ferito.
«E allora perché non mi sei mai venuto a cercare?» alzai involontariamente la voce. «Sapevi dov'ero, tutti i notiziari e i giornali parlano di me. Ma non ti sei degnato di raggiungermi per riconciliarti.» dopo aver guardato il suo viso falsamente dispiaciuto, me ne andai. Attraversai il salotto, dove tutti attendevano la fine di quella scomoda conversazione, per andare a prendere la mia giacca e uscire. Guidare in quelle condizioni non era fattibile avrei potuto accelerare per la rabbia che provavo e non accorgermene, di conseguenza attirare l'attenzione della polizia stradale o appostamenti di altre divisioni.
Quando videro che mi affrettavo ad indossare la giacca si alzarono di scatto «Dove vai?» chiese John, anche se a primo impatto mi sembrava di sentire mio padre. Mi voltai ancora irrequieto «A fare due passi.» aprii la porta e la chiusi con forza.

Dopo una lunga passeggiata caratterizzata dall'aria gelida che mi aiutava a liberarmi da emozioni negative e pensieri, tornai. Era tardi, quasi le tre di notte, ma fu solo allora che ricordai delle tre coordinate delle tre case li vicino. Proprio sulla soglia della casa di papà, feci dietrofront e andai in quelle case. Ricordai perfettamente dove erano e, una ad una, gli feci visita. La prima non aveva nulla al suo interno. Era completamente vuota, aveva persino finestre senza vetri.
La seconda, anch'essa, un buco nell'acqua. Aveva solo mobili distrutti pieni di ragnatele, muffa e tanta sporcizia.
Ora toccava alla terza e ultima casa. Avevo un buon presentimento di trovare qualcosa, ma avevo anche una brutta sensazione legata a cosa avrei potuto scoprire. Di fatto non era una casa, ne aveva la somiglianza ma il suo interno era vuoto, una stanza sola con a terra un tappeto sospetto. Lo alzai ma al di sotto c'era solo il parquet. Sospirai e per istinto presi il bossolo che avevamo trovato io e Tom. «Cosa sto cercando?» mi chiesi e fu allora che mi sfuggì il bossolo dalle mani. Cadde a terra e mi chinai a raccoglierlo. Alle dita sentii un lieve sbuffo d'aria fredda che proveniva da sotto il pavimento.
Studiai la pavimentazione cercando di capire cosa potesse essere. Era buio e non si vedeva molto, dunque mi affidai al tatto. Seguii la scia di aria che usciva dal pavimento finché non trovai una piccola maniglia intagliata in un'asse del parquet. La tirai e una parte del pavimento si alzò rivelando una botola e un tunnel buio e inquietante.
Cercai il cellulare in tasca e accesi la torcia. La botola rivelò delle scale che svanivano nelle tenebre, ma questo non mi fermò. Scesi fino a raggiungere un tunnel che continuava in un gelido e umido buio. Nonostante la luce della torcia, non si riusciva a vedere la fine. Camminai per un po' ma sembrava infinito. Ad una certa mi fermai quando sentii il cellulare vibrare per avvisarmi che la batteria era quasi scarica. Sospirai, lo sapevo che avrei dovuto caricarlo la notte prima.
Mi arrangiai e tornai indietro, risalii le scale e chiusi la botola coprendola bene col tappeto. Prima che il cellulare si spegnesse controllai l'ora. Erano le cinque di mattina, quindi mi sbrigai a tornare, prima che tutti si svegliassero. Con un'altra scusa, avrei colto l'occasione di riandare in quella casa per scoprire cosa nascondesse quel tunnel.

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