Capitolo V- Consiliator Deorum

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Non era mai riuscita ad apprezzare la nebbia. Per quanto Emeline provasse a trovare una qualche bellezza nel manto cenerino che copriva sempre il suo orizzonte, non aveva mai accettato il modo in cui offuscasse ogni cosa, rendendo la qualità dell'esterno più simile a quella terribile di un miope.

La serra era cupa, umida, come lo era la maggior parte dei giorni: poche volte le piante al suo interno venivano benedette da qualche gracile filo di sole; il resto del tempo rimanevano buie nel loro antro, a covare vendetta contro quel perpetuo maltempo.

Emeline alzò gli occhi al cielo, incontrando il telo di nuvole imprigionate tra le striature immense del ferro battuto coperto di ruggine e muschio.
Le mani le si stavano raffreddando, le guance le pizzicavano; non il giorno perfetto per stare nella serra, ma l'unico che aveva a disposizione prima che arrivasse il trenta di agosto.
Sapeva che li avrebbe trovati lì, seduti su quelle panche vuote di quell'aula deserta, e li avrebbe anticipati: Deerwood, (come si chiamava, di battesimo? Non lo aveva mai detto. Lui e l'americano non si erano mai chiamati per nome, non ancora) con quegli occhi grandi e stralunati, l'avrebbe di certo osservata con una fragile paura.
Non sapeva come avrebbe reagito l'altro; ancora ricordava la sua occhiata glaciale e diffidente.

Strinse tra le dita la cesoia, spostando qualcuno dei rami più secchi del gelsomino. Scricchiolarono, e caddero foglie dai colori pallidi e tristi, secche.
Stavano morendo perché erano confuse. Sorrise a quel pensiero assurdo, certa che celasse la verità.
D'estate Edimburgo era inaffidabile, completamente doppiogiochista.
Il gelo si alternava al calore nell'arco di una notte, con la rapidità traditrice di una puntura di vespa, ed Emeline non era certa di disprezzare questo suo aspetto.

Le lame della cesoia morsero l'esile stelo di un ramo appena germogliato, e un piccolo grappolo di gelsomini cadde a terra, sul terriccio scuro e grumoso.
Mancava qualche appunto, qualche ultima illustrazione, e la guida alle sue ricerche sarebbe stata presentabile.

Si guardò intorno: rami secchi, scie scostanti di un verde spento; vasi rotti, cocci, sedie dalla vernice scrostata.
La serra non le era mai sembrata così decadente.
Doveva fare qualcosa per renderla all'altezza. Sì, si convinse.
Avrebbe fatto ripitturare il piccolo atrio da tè, sistemato nuove piante, comprato una voliera più grande dove trasferire i canarini.
Tutto il necessario per non osservare più quel quadro di abbandono, quei colori smorti, per non sentire più l'acre odore delle foglie marce.

Ma non in quel momento.
Ancora qualche tempo, qualche piccolo avvenimento, e tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Immaginò la sorpresa di Deerwood, l'ammirazione di quell'amico il cui nome non era di certo Enoch Montgomery; quando avrebbero iniziato a fare parte della sua vita avrebbe sistemato tutto.
Per adesso l'unica cosa importante rimanevano, come sempre, ancora quelle due solitarie piante di gelsomini.

La Vaas disponeva di un vecchio dormitorio maschile, nella parte ovest dell'Università

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La Vaas disponeva di un vecchio dormitorio maschile, nella parte ovest dell'Università.
Situato all'interno di un imponente e pittoresco edificio gotico, tutti lo avevano rinominato, poco affettuosamente, la "Cattedrale".
In effetti qualcosa di sacro -sconsacrato- lo aveva, con la sue pareti sottili, la sua longilinea altezza e la sua facciata intarsiata di polverosi rosoni, le torrette appuntite come spilli da balia e quel gelo che gli vorticava attorno, come un'invisibile stola.

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