Capitolo VIII- Odi et Amo

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«Come ti è saltato in mente di sdraiarti sotto i pini?» Julius lo guardava con quei suoi occhi grandi ed espressivi, mentre mangiava more pescandole dal piccolo gruppo che teneva tra le mani.

«Lasciamo stare, d'accordo?»
Ezra stava accomodato contro un tronco di faggio.
I boschi della Vaas non erano mai la scelta preferita dai suoi studenti per ritrovarsi: tutti preferivano il parco, che era sempre vivo ed affollato.
Era stata un'idea di Julius, spostarsi nelle campagne quando il cortile era troppo caotico.

«Non sapevo che non si potessero saltare delle lezioni.»
"in America fate così?" Aveva chiesto McLeod quando Ezra era entrato in aula, boccheggiante e stropicciato dal vento.
"A volte" gli aveva risposto, sinceramente. Aveva capito poco dopo che quello usato dal professore era sarcasmo, e che dopo tre anni alla Vaas non gli si sarebbe più perdonata nessuna mancanza dovuta alla sua provenienza oltreoceano.
«Ma certo che si può» Julius mangiò un'altra mora, le sue labbra chiare e sorridenti tinte di un'ombra viola.
«Solo devi avere un valido motivo. E stare sotto i pini a guardare il nulla non lo è.»

Ezra abbassò lo sguardo, Julius tornò a parlare.
«L'ho fatto anch'io, molte volte.
Ma devi annunciarlo la mattina presto, dicendo che stai male. Ti fanno stare in camera a riposo forzato, ma se vuoi uscire comunque devi passare dal retro e poi dal corridoio interno del piano terra, dove c'è l'aula di geografia. Sperando di non incontrare nessuno, è ovvio.»

Ezra pareva ascoltarlo, guardandolo a volte negli occhi, con interesse; ma quando parlò, il viso di Julius sembrò ghiacciarsi, brinandosi di pallido.

«Quando potrò parlarle, secondo te?»
chiese infatti Ezra, prima di sedersi su uno dei muschiosi blocchi di pietra che costituivano le macerie di una vecchia casa, un tempo situata sotto quel colle di sottobosco.

Julius lo guardò con la coda dell'occhio, le ombre dei faggi che gli si dipingevano, scure, in volto.
«Non è più necessario» disse.

«L'hai fatta fuori?» chiese Ezra, sarcastico e noncurante.

«No, peggio» Julius gli porse qualche mora, lui rifiutò. «Ci ho parlato.»

«Che cosa?»
Lo guardò con un lieve sconcerto, il tono flesso da una punta di sgradita sorpresa.
Come se quel gesto fosse stato quasi un tradimento, come se avesse dovuto essere lui a doverle parlare per primo, disse: «perché lo hai fatto?»

Julius incurvò le sopracciglia. Il suo viso era sorridente, appena risentito della tensione che si stava creando.
«In realtà è stata lei a parlare con me.»

Le labbra dischiuse, lo sguardo sgranato, le guance infiammate di rosa: Ezra gli stava fermo davanti, mentre l'altro si crucciava di aver finito le more che teneva in mano.
«Cosa ti ha detto?» sillabò, le ciglia che sfarfallavano lente e ritmate.

Julius inspirò, quasi dovesse annunciare la più rivoluzionaria delle affermazioni, ma rimase in silenzio.

«Julius!»

«Niente è più facile di parlare» acconsentì allora lui, con quella citazione di Terenzio con cui si faceva coraggio quando temeva di non essere in grado di descrivere ciò che provava.
«Sai, stavamo uscendo dall'aula, io ero davanti a lei.» Poi si fermò, di colpo.

«Julius, Dio, si può sapere cosa ti ha detto?»

«Mi ha chiesto il permesso per passarmi avanti.»
Poi alzò lo sguardo, le labbra serrate nel disperato tentativo di trattenere una risata.

Ezra lo guardò a fondo, poi schioccò la lingua, insofferente.
«Ti odio» disse, e calpestò le more che Julius aveva raccolto e radunato a terra.

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