4.1 ~ "Devo farti vedere una cosa"

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Il mattino seguente fui svegliato direttamente dal suono del campanello.
Avrei potuto giurare che fosse Simone anche stavolta, ma invece era Chicca che mi portava la colazione a casa.
Due croissant, uno alla nutella per me e uno integrale con marmellata ai frutti di bosco per lei, rigorosamente presi dal locale di mia madre.

In più, mi aveva portato il quadro di cui mi aveva parlato il giorno in cui sistemammo casa, quadro che non era più riuscita a farmi avere fino a quella mattina.
Ero praticamente raffigurato io, in forma astratta, sulla mia vecchia moto.
Ed era bellissimo.
Sullo sfondo sprazzi di colore rosso, viola e arancione. Dava vivacità a quell'ambiente ancora troppo spoglio e spento.

Quell'immagine mi fece subito venir nostalgia delle mie vecchie due ruote e fui sopraffatto dalla voglia di andare a vedere in garage se potessi far ripartire la moto.
Così, quando Chicca andò via circa mezz'ora dopo, mi affrettai a vestirmi comodo con un paio di pantaloni di tuta neri e una felpa dello stesso colore, e uscii dalla porta giocherellando con le chiavi della macchina in mano.

Raggiunsi la dimora di mia madre e parcheggiai nel piccolo spazio che accostava le scale per raggiungere il primo piano.
Andai a cercare le chiavi del garage al solito posto e sorrisi soddisfatto quando le trovai, il nascondiglio era rimasto lo stesso.
Aprii quella porta un po' ammaccata e arrugginita e in un attimo fui dentro.

Sentivo l'adrenalina scorrermi nelle vene al solo pensiero di risedermi su quella sella.

Mi assalirono migliaia di ricordi di tutti quei pomeriggi passati a riparare, a tatuare, a sporcarmi le mani e la pelle.
Nell'aria sempre lo stesso odore, sapeva di casa, di nostalgia.

Andai a tirar giù il telo grigio che ricopriva la moto e solo a rivederla mi sentii rincuorato e, un po', mi emozionai.
La accarezzai passando le mani sui componenti e sentii i polpastrelli entrare in contatto con lo strato sottile di polvere che era riuscito a penetrare anche attraverso il telo.
Allora ci provai, a metterla in moto.
E quando si accese al terzo tentativo non riuscii a trattenere la gioia, saltellai sul posto un paio di volte come un bambino e mi passai le mani dietro la testa.

Sapevo di non doverlo fare, di dover mantenere una certa distanza, ma la prima cosa che mi venne in mente di fare fu quella di chiamare Simone.
Dovevo fargliela vedere.
Mi rispose al terzo squillo, la voce di chi non si aspettava che l'avrei chiamato e, soprattutto, non a distanza di una sola notte dall'ultima volta che ci eravamo visti.

- Simó, ma te abiti ancora in villa, si?
- Si, perché?
- Tieniti pronto, dopo pranzo passo da te. Devo farti vedere una cosa.

Anche attraverso il telefono riuscii a captare il sorrisetto che gli era comparso sulla faccia, aveva risposto che non aveva nulla da fare e mi avrebbe aspettato, ma qualcosa mi diceva che se anche avesse avuto qualche impegno lo avrebbe immediatamente messo da parte.

Qualche ora dopo, ero sulla mia sella preferita e seguivo il tragitto per casa sua con il cuore in gola. Forse stavo sbagliando, Simone avrebbe potuto prenderla come un segno che ripensavo ai vecchi tempi.
Ma ormai il danno era fatto e non sarei tornato indietro. Magari, però, potevo almeno avvertire Marco.

Quindi accostai un marciapiede e ci posai un piede per mantenermi, presi il telefono dalla tasca e scrissi un messaggio a Marco dicendogli dove stessi andando e che la mia moto andava ancora, gli avrei fatto un giro quando sarebbe venuto a trovarmi a Roma.

Ripartii e dopo qualche minuto attraversai il vialetto di casa Balestra.
Non potevo spiegare quanto fosse strano ritrovarmi lì, anni dopo, a ripercorrere quella via con la vista della campagna ai lati.
Era come se non fossi mai partito, una situazione surreale che mi confondeva le idee.
Spensi la moto a un paio di metri dalla porta di casa, che si aprì dopo un istante e ne uscì un Simone euforico.

Il tuo ritorno e altri disastri Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora