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Il senso di familiarità è qualcosa di particolare. Si tende a credere che "familiare" sia un profumo, un viso, un suono. Cose positive, belle, che fanno sentire al sicuro e che riportano a galla ricordi piacevoli.

È familiare l'abbraccio di una madre, il calore di un caminetto acceso durante le vacanze natalizie, il profumo di dolci la notte del sette luglio prima che esplodano i fuochi d'artificio.
È familiare la voce di qualcuno a cui si vuole bene, il tocco di dita che si conoscono e a cui non ci si abitua mai.

Per me, invece, "familiare" era diventato quel leggero senso di nausea che precede i conati di vomito. Avevo imparato a riconoscerli nel tempo; arrivavano insieme a quel bruciore all'altezza dello stomaco che sembrava un piccolo fuoco esploso sotto al diaframma.

Anche in quel momento, con le mani premute sulle labbra, sapevo che stava succedendo ancora.

I miei occhi vagarono in cerca di qualcuno; non impiegai troppo tempo per incontrare la figura di Shoto che già camminava verso di me riducendo la distanza tra noi ad ampie falcate. Malgrado tutto, sorrisi e lasciai che mi cingesse la vita con il braccio per sostenermi. Mi trascinò in bagno mentre la mia vista iniziava ad offuscarsi, presto mi ritrovai con la testa piegata sul water e le labbra schiuse in un rigetto di sangue e numerosi petali di un bel mix rosso-arancione.

«Per quanto hai intenzione di andare avanti così?»

La voce di Shoto mi giunse dura, quasi arrabbiata.

Sapevo cosa pensava, era stanco. Non ce la faceva più a stare dietro ai miei drammi, ai miei continui malesseri e bisogni. Mi sarei odiato anche io, l'avevo fatto spesso in passato, eppure mi risultava così difficile fare a meno di lui in quel momento.

Non risposi, mi limitai a sospirare mentre premevo la carta contro le labbra e mi rialzavo indolenzito.

«Cosa dovrei fare?», la mia voce era esausta. Tirai lo scarico in modo meccanico e lanciai la carta nel cesto con una certa frustrazione. Lui non si fece scalfire minimamente da quella reazione, non che mi aspettassi qualcosa di diverso.

L'espressione di Shoto era come un lago piatto in una giornata soleggiata di primavera. Era imperscrutabile per tutti, tranne che per me.

«Non saprei, confessare ciò che provi? O magari deciderti ad operare quei dannati polmoni.»

Il tono sarcastico di Shoto suscitò in me un moto di irritazione che non riuscivo più a controllare. Sapevo che non lo diceva con l'intenzione di ferirmi, ma odiavo quei momenti in cui mi trattava come se la soluzione ai miei problemi fosse semplice ed immediata.

Mi ritrovai a stringere le dita a pugno e per un breve attimo le cicatrici bianche si illuminarono di un bagliore verdastro.

Negli occhi di Shoto balenò qualcosa che sembrava stupore, intorno a me sentivo sollevarsi le scariche di energia che caratterizzavano il mio Quirk.

«Ma certo!», esclamai usando il suo stesso tono. «Che stupido a non averci pensato. Basta confessarsi, sono sicuro che finirebbe alla grande. O forse no, hai ragione, la cosa migliore è operarmi e decidere di dimenticare per sempre ciò per cui mi sono ammalato, giusto. Che cazzo ti dice il cervello, Shoto?»

Istintivamente calciai il secchio della spazzatura vicino a me che rotolò pigramente sul fondo della stanza; lo ignorammo entrambi, tendevo a perdere il controllo in quel tipo di situazioni.

Non mi piaceva, odiavo il senso di impotenza che mi attanagliava le viscere e non mi faceva ragionare.

«Credi che questo fottuto amore non corrisposto sarebbe una malattia letale se fosse così facile uscirne?»

If the world was endingDove le storie prendono vita. Scoprilo ora