Serata fuori ufficio

940 0 0
                                    

Salutai l'ultima mia collega rimasta fino a tardi in ufficio come me e mi avviai verso la porta della sala riunioni. Forse anche lei era rimasta per evitare di fare i conti con la realtà al di fuori del lavoro, la realtà fatta dei veri fallimenti e sogni infranti. Oppure più probabilmente era rimasta per via della call in cui era coinvolta. Forse per lei non c'era nemmeno un'altra realtà a cui tornare.

Per quanto orribile, la mia lo sarebbe stato pur sempre meno di quella in cui ho accettato di avere come sogno il lavoro e di aver raggiunto il mio sogno. Per qualche motivo i miei sogni coincidevano con i miei insuccessi e quelli che da qualsiasi altra persona della mia età sarebbero considerati successi non erano niente.

Uscii dall'ufficio nella sera ormai completamente buia per l'inverno. Era piovuto tutto il giorno e le luci delle automobili e le insegne dei negozi si riflettevano sull'asfalto bagnato. La serata richiedeva una sigaretta e così ne accesi una e iniziai a fumarla nel modo sbagliato. Non mi interessava l'effetto della nicotina per cui non inspiravo il fumo nei polmoni ed espirando ne usciva solo una nuvola densa e lenta.

Con una fotocamera di quelle a pellicola probabilmente avrei potuto rendere l'atmosfera perfettamente, catturando ogni riflesso che sembrava trasmettermi qualcosa, immortalando un'opera d'arte apprezzata da chiunque, critici e persone comuni, un Ansel Adams della metropoli. Ma avrebbe richiesto di portarla in giro, comprare la pellicola, farla sviluppare, un po' di allenamento nell'usarla in quanto troppo abituato alla facilità del digitale, insomma molta fatica. Inoltre per quanto mi sforzassi non riuscivo a trovare un soggetto davvero interessante, qualcosa da porre come fulcro della composizione e in cui i riflessi, la pioggia e la luce, veri protagonisti, avrebbero lasciato il segno senza essere posti banalmente al centro dell'attenzione. Per quanto mi sforzassi vedevo solamente cose di cui non mi interessava, insegne di farmacie, negozi qualsiasi, persone banali che bevevano apparentemente felici.

Mentre mi avviavo verso la stazione dei treni vidi una statua di qualche artista contemporaneo ferma in mezzo al traffico, che lo dirigeva come un vigile. Quale senso ha avuto, amico artista, fare tutta quella fatica per ottenere l'ennesimo vigile che dirige il traffico? Le persone al bar di fronte non ti guardano, sei spenta nella notte e l'unica cosa che si intravede è il tuo profilo tra i fari delle automobili. Eppure dev'esserci stato un momento in cui tuo padre era soddisfatto di te, dev'esserci stata una grande inaugurazione, con complimenti a destra e a sinistra. Ora quelle persone bevono, ridono, apparentemente felici. Forse nascondendo i propri problemi agli altri e forse anche a sé stesse. Ho smesso di credere che sia una strategia funzionante.

Dopo qualche fermata sono sceso dal treno e ho iniziato a camminare. Ho percorso quella stessa strada desolata percorsa tante volte in passato. Ogni volta che ci passavo, come ora, le case abbandonate e i terreni ancora liberi da costruzioni mi suggerivano qualcosa. Per qualche motivo stimolano in me qualche riflessione, anche se non riesco bene a mettere a fuoco quale, forse è solo uno specchio di desolazione e terreni ancora liberi da costruzione.

Camminai per quella stessa strada, svoltando a destra e poi sempre dritto, brevemente incrociando lo sguardo distolto di qualsiasi ragazza sperando invano che ci si fermi e ci si saluti, che ci si inviti a bere qualcosa. Non è più nemmeno una questione di sesso, infatti ormai incrocio lo sguardo di chiunque, uomini, donne, vecchi. Ma né io né loro abbiamo il coraggio di fermarci, di fermare qualsiasi programma o assenza di esso che abbiamo per la serata e invitarci a bere qualcosa.

Ma non so nemmeno io bene di cosa parleremmo, dato che neanche coi miei amici è ben chiaro di cosa si parli. Pensandoci fino in fondo, forse basterebbe stare seduti ognuno a bere la propria birra in silenzio, contemplando l'assurdità del mondo.

Mentre cammino mi ricordo di un episodio di qualche tempo fa, quando con un mio amico andammo oltre confine, in Svizzera, ad un bordello. Azione che molti considererebbero schifosa, appannaggio soltanto della feccia della società, dei disperati. Noi non apparterremmo né alla feccia né ai disperati, in teoria. Siamo soltanto giovani che vorrebbero fare qualcosa di vivo, qualcosa di reale, ma non ne hanno la possibilità. Ormai siamo lavoratori, fidanzati, o qualsiasi altra cosa. In fondo siamo solo dei codardi che non hanno il coraggio di dirsi fermamente: "IO VADO A PUTTANE". In ogni caso siamo andati. Il mio

amico si era documentato su internet, come ogni buon giovane, scoprendo che solitamente nei bordelli si viene approcciati subito dai cosiddetti "missili" ovvero prostitute di seconda categoria che puntano sui nuovi dell'ambiente. Così ci siamo detti di rifiutare le prime che ci avrebbero abbordati e aspettare.

Mi si avvicinò una ragazza bionda, alta, ma non particolarmente bella. Iniziò a parlarmi chiedendomi un po' di tutto, appresi che lei veniva da qualche parte ad est dell'Europa e si chiamava con un qualche nome straniero che ho dimenticato subito. Ero completamente intenzionato a fare l'indifferente e mandarla via, ma non trovavo le parole giuste. Così quella rimase e iniziò a strusciarsi su di me e toccarmi il pene da sopra i pantaloni.

In breve finimmo su per le scale e poi in una camera. Nonostante quel giorno avessi bevuto cinque birre e fumato un sigaro, mi dissi che l'eccitazione della novità doveva per forza farmi venire in breve tempo, così pagai i cento euro per l'ora di sesso che era in vendita. Poco prima di farlo, lei controllò l'orario sul cellulare e intravidi quello che doveva essere suo figlio come immagine di sfondo. Fu lì che capii che per lei era soltanto un lavoro qualunque, che svolgeva con la stessa indifferenza con cui io svolgevo il mio, solo per mantenere se stessa e suo figlio in questo mondo di merda.

Così, ancora prima di iniziare a scopare, capii che non sarei venuto. Volevo andarmene, ma ormai avevo pagato. Per tutto il tempo cercai di dimenticare quell'immagine, pagai persino altri cento per un'altra ora, ma alla fine non venni. E nei suoi occhi vedevo la totale indifferenza nei miei confronti. Non che non fosse brava, anzi, fingeva abbastanza bene, ma ero consapevole di cosa provava davvero. Forse la prossima volta, senza le birre e il sigaro, ci riuscirò. Forse non ci riuscirò mai.


Così, mentre cammino, continuo a incrociare gli sguardi delle persone, finché passo davanti ad un centro scommesse. Sulla soglia una giovane ragazza bionda coi capelli corti è ferma a fumare. Potrei fermarmi, salutarla. Potrei chiederle come si scommette. È un'altra di quelle cose che nella mia mente renderebbe viva la vita. Gettare i soldi con disprezzo. Attendere insieme i risultati delle corse dei cavalli, tesi nella speranza di un guadagno facile da sperperare in vino e sigarette, da consumare scopando nel suo letto. Lei ricambia il mio sguardo e nei suoi occhi mi pare di leggere la stessa intenzione. Nonostante questo non mi fermo, non rallento nemmeno, anzi accelero. L'azione è tutta nella mia testa. Non ne sono più capace, non ne sono mai stato capace e mai lo sarò. Alcuni di noi sono destinati a vivere come robot senza vita, lavorando per sempre con gli occhi spenti, solo per arrivare tardi a casa, la sera, scrivere queste righe orribili, e andare a dormire senza neanche rileggerle per ricominciare tutto il giorno dopo, lo stesso lavoro, gli stessi ricordi fallimentari, gli stessi sguardi ricambiati e non ma comunque conclusi in un nulla di fatto, niente più di un episodio riuscito male di una serie tv di second'ordine, tutti svolti solamente e rigorosamente nella propria testa.

Storie SporcheDove le storie prendono vita. Scoprilo ora