23 Dicembre, 19.00
Le ore passate in bus sembravano non finire mai. Simone si rendeva conto in maniera fin troppo vigile di ogni fosso, ogni curva, ogni tunnel che quel viaggio comportava.
La mascherina che aveva in faccia implorava di essere cambiata, mentre le sue gambe non chiedevano altro che toccare terra.
I sedili di quel veicolo erano troppo piccoli e troppo vicini, ed il giovane Balestra era fin troppo alto per potervici entrare.
Si dovette accontentare quindi di una sistemazione precaria che vedeva le sue gambe a penzoloni verso il corridoio, e che comportò non poche lamentele da parte degli altri viaggiatori.
Aveva impiegato una vita a trovare quel volo, e nonostante l'incredibile distanza fra la sua città e l'unico aeroporto che offriva quel servizio, non poteva andargli meglio di così.
Avrebbe sopportato le sedie scomode che anticipano i gate, i sovrapprezzi sul cibo ed i passeggeri che non avevano mai visto una doccia in vita loro, se quello significava passare il Natale a casa sua, con la sua mamma, con suo papà, con Jacopo.
Tutti insieme come avrebbe sempre dovuto essere.
Quando quel bus infernale arrivò alla sua ultima fermata, Simone dovette abbandonarlo per primo, perché le sue gambe bloccavano la strada a tutti gli altri passeggeri.
Il gelo esterno trapelò senza pietà nel suo giacchetto verde, arrivandogli fin dentro le ossa.
La neve ed il ghiaccio rendevano difficile il recupero delle sue troppe valigie, e chissà quanto avrebbero reso impossibile il loro trasporto fin dentro l'edificio.
Simone strinse le spalle e contrasse ogni muscolo in corpo cercando di generare del calore, mentre scaricava i suoi due bagagli e cercava di muoverli sulla superficie bagnata del pavimento.
Il bagaglio più grande aveva una ruota con una coscienza personale, che non sembrava proprio volersi dirigere in aeroporto e Simone fu costretto a fermarsi più e più volte cercando di farle cambiare idea.
Il telefono in tasca scottava ancora delle raccomandazioni di Jacopo, e della tardiva richiesta del padre di inviargli la sua posizione.
Suo padre e sua madre facevano gli offesi da due giorni, riservandogli il trattamento del silenzio, e tutto perché pianificava di dormire in aeroporto in modo da non far tardi per l'imbarco, ma alla fine avevano ceduto entrambi.
Ci vollero quindici minuti di estenuante camminata prima di raggiungere l'ingresso principale dell'edificio, dove un calore che faceva quasi male lo avvolse.
Davanti a lui i soggetti più disparati dicevano addio a qualcosa.
C'era una coppia di vecchietti che si salutava vicino l'ingresso, proprio davanti alle macchinette del caffè.
Lei piangeva, fu facile notarlo, mentre lui cercava di fare il forte.
Più avanti, vicino ai tabelloni, un gruppo di ragazze guardava mentre una di loro andava via verso i controlli, girandosi sporadicamente per assicurarsi che le sue amiche la stessero ancora guardando, e che tutto andava bene.
Le sedie di metallo erano piene di persone in attesa, sdraiate, sedute e coperte da felpe o giubbotti riadattati, con il caffè in mano e le cuffie nelle orecchie.
Anche loro attendevano di dire i propri addii.
Simone, a modo suo, doveva dire addio alla vita.
Quella che negli ultimi sei mesi era stata la sua realtà adesso doveva diventare poco più di un ricordo, perché adesso doveva tornare alla vita vera.
Fu un tipo di dolore bello, quello che provò.
Certo, la stretta allo stomaco faceva così male che a malapena gli concedeva il respiro, ma era quel dolore a ricordargli di cosa avesse vissuto, di quanto avesse vissuto.
Come le ruote delle valige che gli correvano davanti, fuggivano fra le sue dita i ricordi del giardino del campus, che aveva visto più pranzi che la sua cucina, del professore di analisi che si era messo a piangere in classe quando Simone aveva annunciato che quello era il suo ultimo giorno, del coinquilino Jean, che prima lo amava e poi gli metteva il decolorante nello shampoo.
Assieme agli aerei che spiccavano il volo sopra al cielo parigino lasciava andare le amicizie che aveva stretto nei bagni della discoteca, il ricordo di quella ragazza tedesca che gli aveva lasciato il numero mentre era intenta a picchiare una sua compagna di corso, del suo amico spagnolo che passava più tempo a scappare dalla polizia che a studiare.
Non poteva permettersi di farlo fisicamente, ma nella sua testa lasciò un bacio al pavimento, salutando quella terra che lo aveva accolto ed era stata così dolce e clemente con lui.
L'Erasmus era un'esperienza strana, se ne era reso conto fin troppo presto.
Il tempo scorreva in maniera diversa, e lo spazio si incrinava intrappolandoti al suo interno.
Gli era sfuggito di mano, ne era consapevole.
All'inizio scorreva troppo lentamente, e gli giocava brutti scherzi. Credeva di svegliarsi nel suo letto ogni mattina, ma invece si ritrovava in una stanza estranea, avvolto da coperte ruvide perché dosare l'ammorbidente era un'arte difficile da perfezionare.
Poi iniziava a correre, e lo consumava, pezzo per pezzo, ricomponendolo poi in maniera disordinata, caotica, ma bellissima.
E poi finiva, e non lasciava più spazio a nulla.
Non si poteva tornare a casa con il cuore intero, non veramente, ma a casa ci si doveva tornare per forza.
Si lasciò un'ultima occhiata alle spalle, salutando la Francia come quella ragazza aveva fatto poco prima con le sue amiche, e si incamminò verso il domani.
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48 ore - Manuel & Simone
FanfictionDi come il tempo si è piegato e lacerato per far spazio a due ragazzini persi, e di come quei due, ignari di tutto, non hanno fatto altro che remarvici contro. [Sfortunatamente tratto da una storia vera.]