III

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Il weekend del 9 e 10 ottobre fu il primo che passai a casa di mio padre. Fu preceduto da diversi giorni di madre-presa-da-rimorsi, che cercò di cambiare la prospettiva con cui dovevo vedere il mio genitore fedifrago. La stima che avevo dei miei genitori in effetti si riequilibrò, ma al basso: detestai ancora di più quella banderuola al vento di mia madre.

Mio padre si premurò di non far trovare in casa la sua "compagna" che, mi spiegò con un sacco di "mhm" e imbarazzati colpetti di tosse, aveva avuto un impellente impegno di lavoro fuori regione. Pensai che lo avesse fatto per "festeggiare" il mio compleanno appena passato

Mangiammo al McDonald's perché suppose che, in quanto giovane, amassi i fast food.

In realtà, se avessi dovuto scegliere, avrei preferito una pizzeria, ma lo assecondai, impregnandomi di odore di fritto. Parlai poco, rispondendo a monosillabi sulle varie domande che riguardavano la scuola e il fatto che avessi smesso di andare a pallavolo esattamente come aveva fatto Valeria, che non si sentiva più a suo agio. Sopportai quel supplizio fatto di tentativi di farmi capire che entrambi loro si erano messi alle spalle la parte peggiore, ed ora stavano gestendo da adulti anche questioni delicate come una adolescente contesa.

«Si, va bene, ho capito, tutto il resto rimane. E io adesso verrò mandata in giro come un pacco. Perché voi avete deciso che la suddivisione giusta è dodici giorni di madre e due di padre» presi un grande respiro, perché sapevo che stavo per litigare, «quando in realtà vorrei fare zero con madre e zero con padre».

Sospirò, appoggiò gli avambracci al tavolo, unendo le dita delle mani e disse «Capisco che in questo momento non siamo le persone che preferisci».

Non litigammo, capì che non era il caso e si limitò a tornare a chiedermi come andava con amici, scuola, e come era andata l'estate irlandese. Ripensando a quante volte mi ero sentita dire di comportarmi bene, di vestirmi bene, e tutte le altre cose che si dicono alle ragazze che potrebbero incappare in situazioni "scabrose", ero stata tentata di dirgli seccamente che avevo scopato con un irlandese perdendoci ommioddio la verginità.

Ma anche in quell'occasione mi trattenni dal farlo perché sarebbe stato come dare un ulteriore argomento ai miei genitori per starmi addosso, quando in realtà volevo semplicemente essere lasciata stare diventare trasparente per loro.

E poi, non so perchè, ma pensavo che quella fosse una carta da giocare in un altro momento. Un'arma molto tagliente, da non rigirare certo contro un genitore floscio, dentro un fastfood puzzolente.

Mio padre, nella casa dove abitava con la sua compagna, aveva una piccola stanza per me. Le dimensioni erano da cabina di traghetto, e per quanto si fosse impegnato, era tutto fuorchè accogliente per una quindicenne che lì, comunque, si sentiva molto fuori luogo. Il poster degli U2 dava l'idea di quanto mio padre non capisse un cazzo di me.

Dormii poco e male, mi alzai mille volte guardando fuori dalla finestra, pensando di aprirla e andarmene, non si sa bene dove, l'importante era andarsene da lì, andarsene lontano da quei due che continuavano a tormentarmi. Alla fine tirai fuori dallo zaino di scuola il diario, lo aprii proprio su domenica 10, e iniziai a scrivere.

So che c'è chi sta peggio. So che ci sono le guerre, la gente che muore di fame, la schiavitù e i bambini cinesi che lavorano mille ore al giorno. Ma in questo momento non mi frega, ho voglia di sfogarmi e di dire che le mie giornate fanno schifo, detesto la mia famiglia rotta, il modo in cui cercano di sembrare ragionevoli quando in realtà nessuno ha mai pensato di chiedere con me cosa cazzo mi piacerebbe succedesse.
Sono solo un pacco, portato qui e lì, solo quello.
Voglio andarmene, me ne andrò il prima possibile.
Giuro.

La prima cosa che feci, poggiato lo zaino a casa di mia madre, la domenica sera, fu chiamare Vale, e sentire come stava, chiederle come era andato quel weekend per lei. Era un modo per tenere a distanza i miei problemi, e anche di tenere a distanza mia madre, che aveva già tentato di farmi un paio di domande su come era andata.

Io e Vale ci chiedemmo poche cose, non volevo darle ansie, dissi che era tutto a posto.

«Ti va di vedere una puntata di Melrose Place? Le ho registrate» mi chiese.

Rimasi un attimo con la cornetta in mano. Era quello che in fondo al cuore avevo desiderato per tutto il weekend: normalità, come stare su un divano con un'amica a guardare un telefilm. Niente mamme stronze, padri bugiardi, niente ansie per ex pervertiti, niente report fiacchi da vacanze studio indesiderate.

«Ok» risposi, «arrivo».

Non chiesi nemmeno il permesso. Dissi semplicemente che andavo da Valeria a guardare un telefilm, che non facevo tardi. Punto.

Il clima che mi aveva accompagnato per tutto il viaggio da casa di mio padre a casa di mia madre, e che mi era sembrato fresco al punto da farmi pensare già all'inverno, adesso, mentre andavo a piedi fino a casa di Valeria, mi sembrava meravigliosamente frizzante.

Lei mi aprì già in pigiama rosa antico e pantofole pelose, sorridente.

Passai una serata serena, anche se la madre della mia migliore amica continuava a lanciarmi sguardi costernati, di quelli che si riservano agli ospiti più anziani del canile, quelli che nel canile finiranno i loro giorni.

****

Peggiorai a scuola, ma era destino, dato che della scuola mi interessava poco e usavo la scusa dei passaggi da madre a padre per giustificare il mio essere impreparata. I professori "capivano la situazione" e, in effetti, per quanto poco studiavo e mi davo da fare, la situazione scolastica era meno tragica di quanto pensassi.

Iniziai a passare veramente diverso tempo nei bagni, ma mi guardavo bene dall'andare in quello dei maschi se non per chiedere effettivamente da accendere. Non mi piaceva particolarmente fumare, ma era un buon passatempo per guardare il viavai di ragazzi, protetta dalla porta del bagno delle ragazze, che nessun maschio avrebbe mai varcato senza passare guai troppo grossi perché ne valesse la pena.

Alcune mattine facemmo buco io e Vale, girando per il mercato di Cesena, era il mio modo per aiutare un'amica che aveva perso tutti i riferimenti e le amicizie della parrocchia. Usavamo le altalene dei giardinetti, guardate in maniera sospetta dalle madri a passeggio con i bambini piccoli.

Mia madre iniziò a scaldarsi per il fatto che pensavo più agli acquisti di magliette e jeans a vita bassa che alla scuola. La pagella del primo quadrimestre della seconda non fu per nulla brillante, i giorni successivi altrettanto, per cui i pranzi in cui Valeria era da noi finivano con dei silenzi imbarazzati, dopo aver assistito ad assurdi battibecchi su voti e passatempi, mentre mia mamma additava i video di MTV che secondo lei mi "influenzavano".

Iniziai a fermarmi molto spesso da Valeria a pranzo, evitando di farla venire a casa mia. Guardavamo e riguardavamo certi telefilm, oppure stavamo a zonzo, tanto dei compiti me ne fregava il giusto e non avevamo più l'incombenza degli allenamenti. Mi mancava la pallavolo, ma era più importante la mia amicizia con lei. La tenevo su con il morale, le infilavo le dita nei fianchi urlandole "allora ci mettiamo un po' di ciccia tra una costola e l'altra?!", le facevo mangiare mezzi gelati per mettere su qualcosa attorno alle sue ossa, non facendo troppo caso a chi ci vedeva leccare in due un gelato, guardandoci con occhi famelici.

Giravamo per una Cervia fine-invernale in cui la notte e il freddo umido scendevano ancora in fretta.

Non credo ci fosse del mio merito, ma Vale mi sembrava serena, a pranzo mangiava il giusto, aveva persino iniziato a legare un po' con alcune sue compagne di classe, e questo mi rincuorava. Quando la abbracciavo, non sentivo più le sue ossa premermi addosso, sostituite da arti dolcemente caldi.

Io invece iniziai ad andare a ballare di nascosto.


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