VI

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Mia madre mi fece mille raccomandazioni per raggiungere mio padre a Selva di Val Gardena: attenzione ai treni, alle stazioni, ai bagagli. Sbuffò mille e mille volte per la mia insistenza a voler fare la pizzata di fine scuola quando dei miei compagni me ne era fregato il nulla cosmico tutto l'anno. In questo modo sarei stata costretta a fare tutto quel percorso in treno fino a Bolzano e poi in pullman fino a Selva, completamente da sola.

Continuai a dirle che non stavo partendo per il Kosovo, che dovevo semplicemente raggiungere mio padre e la sua compagna in un luogo di villeggiatura sulle dolomiti. Per rompermi le palle quindici giorni.

Sorrise, compiaciuta che facessi un commento così acido riferito a quella vacanza, mi diede un bacio e tutti i documenti, e mi lasciò in una disabitata stazione ferroviaria di Cesena. La banchina puzzava di limatura di ferro e grasso, frammisto ad un vago sentore di urina vecchia. Faceva parecchio caldo anche per essere giugno. Ero con degli shorts e uno zainetto non molto pesante, e un cellulare nuovo di zecca per tenermi in contatto con tutti loro.

Per la seconda estate di fila lasciavo la mia migliore amica, ma la situazione quell'anno era estremamente diversa.

Il mio rapporto con Vale non era stato facile nell'ultimo mese, anzi, era stato molto complicato e ogni singola volta che l'avevo vista, avevo avuto paura di non riuscire a tenere la giusta distanza. Nell'ultimo mese avevamo quasi litigato perché mi ero tenuta distante e lei mi aveva chiesto perché, e noi non avevo trovato altro da dire che «Sono cazzi miei, i casini aumentano al posto di calare».

Se avessi avuto davanti un'altra me, sarebbe finita sicuramente a male parole, se non a schiaffi. Invece avevo Vale, e tutto si risolveva con qualche ora di silenzio, una telefonata, un "volevo salutarti" detto per telefono, e tutto passava. Questo era il suo bello: magari era una da trascinare fuori di casa, ma non si risparmiava come amica. Era leale e gentile.

Mille volte mi era salita la voglia di baciarla, mille volte avevo giocato con lei ad arrabbiarmi per una battuta, per poterla afferrare per la vita e sentire il suo corpo addosso, mentre rideva e mi diceva di lasciarla altrimenti chiamava i bagnini di Baywatch.

E mille volte mi ero toccata pensandola, pensando a lei che contraccambiava i miei sentimenti, che mi accarezzava, mi abbracciava ed in qualche modo facevamo assieme qualcosa che assomigliava all'amore. Non ero una che si masturbava molto, di solito mi toccavo il corpo orgogliosa delle mie forme e quello mi bastava. Ma da quel nove maggio la mia vita era cambiata, e i miei desideri non avevano fatto eccezione.

E così, andavo via con la domanda che continuava a martellarmi la testa: una volta tornata, avrei ricominciato come prima, fingendo che fosse solo la mia amica del cuore?

Avevo persino paura di riprendere il discorso della discoteca, con lei. Le mie uscite si erano fermate totalmente, come se mi fosse passato il desiderio di andarci. Ma tornarci con lei mi faceva semplicemente girare la testa: immaginarla in estate, con un abitino minimo, ballare sul cubo di fianco a me, equivaleva a produrmi una scarica elettrica dentro. Non sapevo se avrei avuto le forze per frenarmi, rischiando di rovinare tutto.

Mi ero messa da sola in quella che, anni dopo, verrà definita come friendzone. Ci ero entrata volontariamente, patendo volontariamente tutte le pene che comportava starci.

Questi erano i miei pensieri mentre a Bologna aspettavo, messaggiando mio padre, ma alla fine, non mi diressi alla piattaforma nord per prendere il treno della OBB in direzione Bolzano.

Presi il treno per andare a Milano.

Volevo andare il più lontano possibile e Milano rappresentava la porta per andare il più lontano possibile.

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