IV

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Il weekend del 13 e 14 febbraio ero da mio padre, domenica sarebbe stata San Valentino. Mio padre era in vena di orrende romanticherie ed aveva portato me e la sua compagna a cena fuori regalandoci un mazzo di fiori perché "sono capaci tutti di farlo a San Valentino".

Un giorno prima, quando San Valentino cade di domenica, wow! Un vero colpo di scena, soprattutto perché poi disse una frase di merda tipo "Alle due donne della mia vita", come se io fossi stata concepita e cresciuta assieme al portiere del suo palazzo. La frase mi mise di malumore, tornai dalla cena di malumore e mi misi a letto di malumore. Allo scoccare di mezzanotte ero ancora sveglia, il malumore non accennava ad andarsene.

Pensai "Fanculo, adesso la donna della sua vita, va a vivere la propria vita".

Le ragazze sbocciano dall'infanzia all'età adulta attraverso eventi che sono riti di passaggio: il primo bacio, la prima masturbazione consapevole, il primo ciclo, la prima volta che si fa sesso. Per i ragazzi che sono nati e cresciuti qui, ed in questo periodo, se ne aggiungeva una imprescindibile, che era andare a ballare.

Non esisteva nessuno che, arrivato a una certa età, non parlasse di andare a ballare, non sognasse di rivoluzionare la propria vita sociale entrando in discoteca.

Non facevo eccezione, anzi, era da prima di partire per l'Irlanda che insistevo con i miei per poter andare a ballare, trovando sempre un muro invalicabile fatto di mille piccoli motivi.

Perchè decisi di andare a ballare di nascosto? Sinceramente non lo saprei dire con certezza. C'era desiderio, ce n'era tantissimo, aumentato a dismisura dai racconti delle ragazze sentiti in bagno il lunedì mattina. C'era la voglia di mettere nel sacco i miei genitori che non volevano ci andassi. E poi volevo fare uno sgarbo a mio padre, che in una frase aveva cancellato mia madre dalla sua esistenza.

Rubai due carte da diecimila lire dal suo portafoglio e, vestita come ero andata al ristorante, cioè appena meno ordinaria di come andavo a scuola, presi a prestito una bici dall'androne del condominio e andai verso il Cotton Club. Fuori c'era ancora la fila.

«Ehi, a qualcuno è saltato un posto in lista?» dissi in fondo alla coda.

Un tizio sulla ventina mi squadrò, fermandosi ovviamente all'altezza del seno. Aveva la giacca aperta e la camicia sintetica spiegazzata artificialmente.

«Ti serve un posto in lista? Cosa mi dai in cambio?» con uno sguardo che doveva sembrare furbo.

«Ti regalo la consumazione e ti risparmio la figura col pierre di aver messo in lista qualcuno che non si è presentato».

«Ok, mi accontento» rispose lui, toccandosi il mento con aria vagamente pensosa.

Eccola la discoteca. Quella in cui né mio padre né mia madre volevano andassi, nemmeno alla domenica pomeriggio. Era un luogo dove la musica esplodeva fortissima dentro le orecchie, in un tumulto di corpi che sbattevano e si strusciavano uno contro l'altro, nell'indifferenza completa.

Ragazzi che abbracciavano ragazze appoggiati alle colonne, ragazzi che baciavano ragazze nei divanetti, ragazzi che ballavano addosso a ragazze in pista, ragazzi che toccavano i fianchi alle ragazze, ragazzi che si spostavano per il locale tenendo per mano ragazze che sorridevano e si muovevano a tempo dei bassi.

Fui stordita da tutto quello, anche perchè tutta quella vicinanza, così concentrata, non era una cosa a cui ero abituata. Nel piazzale della scuola, all'autostazione, vedevo ragazzi e ragazze che si scambiavano effusioni, ma erano dosi omeopatiche, che non mi facevano effetto.

Lì invece era tutto concentrato. Ciò che più mi mise ansia fu la serie di sguardi che mi ricordarono subito gli sguardi di Damien, rimandandomi a Cork, alle sue mani, al suo corpo contro il mio, al sesso, al vaso che cadeva per terra e rompeva l'incantesimo.

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