VIII

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Scesi a Cervia alle sei e un quarto. Imbracciai il mio zaino e mi infilai nel primo bar chiedendo se avevano un telefono pubblico o delle schede telefoniche. Al bar, due donne che avevano passato la quarantina, dalle forme generosissime ben poco nascoste, sembravano affaticate dalla giornata calda. I pochissimi clienti avevano facce veramente da bar della stazione.

Comprai una scheda telefonica da cinquemila lire che sul fronte portava la scritta "LA SCHEDA TELEFONICA. DOVE VAI, DOVE VUOI". Mi passò un brivido piacevole per la schiena mentre la infilavo nel telefono pubblico e facevo il numero di casa Pisani.

Rispose Vale.

«Sei a casa?».

«Si, si! Dove sei?!».

«Arrivo» dissi e riattaccai.

Dimenticai persino la scheda nel telefono, chissà chi l'ha trovata. Presi lo zaino e corsi. Corsi veramente. Ma la fatica di quei giorni mi fece desistere in fretta, riducendo la mia andatura ad una camminata indolenzita. Attraversai il ponte dell'ospedale, mi spinsi dentro il quartiere della Malva arrivando al bar davanti al casello ferroviario, girai a sinistra e sentii il cuore battermi sempre più forte man mano che andavo per via Azalee, poi girai, feci ancora qualche passo e suonai il citofono.

Sentii correre giù per le scale, con un gran rimbombo, si aprì il portone e dopo due secondi ci saltammo addosso a vicenda.

«Allora sei tornata!» mi disse, ancora stringendomi.

«Te l'avevo detto» risi, «ma non hai idea di quello che è successo oggi».

«I tuoi sono completamente fuori di testa. Ti uccideranno».

«Fuggirò di nuovo» dissi, facendo spallucce, stringendomi guancia a guancia a Valeria. Volevo sentire il suo corpo addosso e poco importava se mi vedeva solo come una amica. Poi aprii lo zaino e tirai fuori una busta di plastica trasparente.

«Questo è il tuo regalo, scusa se non sono riuscita ad incartarlo».

Scartò di corsa la tshirt nera dei Placebo che avevo comprato a Nizza mentre aspettavo il treno. Ci abbracciammo di nuovo e vidi i suoi occhi lucidi, o forse vidi il riflesso dei miei che erano lucidi. Tirai fuori la macchina fotografica e ci scattammo una foto con una luce orribile, gli occhi arrossati e l'inquadratura non proprio centrata. Ma era bellissima, per me era perfetta.

«Grazie per essere tornata» mi disse, guardandomi dritto negli occhi.

«Non potevo stare lontano da te... il giorno del tuo compleanno» buttai lì, odiandomi per aver tirato una potenziale bomba atomica che rischiava di radere al suolo la nostra amicizia.

Distogliemmo entrambe lo sguardo nel medesimo momento, lei urlando «Mamma arrivo!» all'indirizzo del balcone, dove sua mamma stava, guardandoci; io facendo finta di grattarmi per una puntura di zanzara.

«Adesso torni a casa da tua mamma?» mi chiese.

«Non credo possa fare qualcosa di diverso» risposi. Per un attimo sperai che mi invitasse a rimanere a dormire da lei. Ma era ovvio che non potesse, mi portavo dietro un carico di guai da risolvere, e non potevo più nascondermi.

****

Vi risparmio la terribile parentesi in cui i miei genitori mi rinfacciarono tutto quello che avevo combinato e tutto quello che avevo rischiato. Io presi la palla al balzo e ci buttai dentro anche il fatto che ero andata a ballare di nascosto mentre ero da mio padre. Lui trasalì vistosamente, ma poi aggiunsi «Dorme talmente pesante che manco se ne è mai accorto».

Non ricordo nemmeno bene la quantità di divieti che composero la mia punizione. Mi tolsero praticamente tutto, lasciandomi il letto e il cibo. Poi si dedicarono a una robusta litigata tra di loro, su eventuali colpe secondarie.

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