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Eravamo nella camera di Valeria, era lunedì pomeriggio. Avevo voglia di sfogarmi, di raccontare quel sabato sera che mi aveva di nuovo mescolato le emozioni. Volevo raccontarlo per riviverlo, ancora ed ancora.

«Vale non puoi capire. Sono una pivella nei confronti di tutte quelle ragazze. Renditi conto, loro vengono pagate per ballare, io pago per entrare, ma non sai quanto valga la pena. Sono in un mondo fantastico».

Valeria ascoltava, rapita dalla mia voglia di raccontare la mia esperienza. Essere sopra tutti gli altri, vedere i loro sguardi che correvano per il locale per poi doversi alzare, per fermarsi su di me. I miei occhi brillavano mentre raccontavo l'eccitazione che mi aveva colto una volta sul cubo, il bruciore nella gola quando ero scesa, con la pelle imperlata di sudore.

Avevo attraversato il locale e qualsiasi corpo che mi aveva sfiorato, toccato, mi era rimasto indifferente, la carica di frenesia di cui ero intrisa, mi aveva accompagnata fino a recuperare la scatola, correre a casa di mio padre ed infilarmi nel letto dove letteralmente non avevo dormito se non qualche minuto, forse.

«Quindi non hai dormito la notte di sabato?» mi chiese Valeria.

«No, per nulla, Domenica ero un cadavere. Ho detto che avevo dormito male, ma ti giuro, avevo una faccia da morta, che mio padre si è pure preoccupato».

«Se ti fai beccare a fare 'ste cose, ti chiudono in casa e buttano via la chiave».

«Non mi interessa, io voglio continuare a farlo, lo adoro, non posso chiedere altro. Ormai non conta più nulla» poi la guardai, «se non la nostra amicizia. Dai, trova un modo per venire anche tu».

«Non avrei mai il coraggio di uscire di casa di nascosto. E poi... non avrei una cosa del genere da mettermi».

Mi riconsegnò la scatola che le facevo conservare per non trovarmi mia madre addosso nel caso la trovasse dentro lo zaino con cui tornavo da casa di mio padre.

«Ti sottovaluti continuamente, Vale. Sei chiusa in te stessa, hai paura del giudizio degli altri, e ti rendi trasparente» poi aprii la scatola, «oppure ti nascondi. Seppellendoti a casa. Provalo».

Non volevo dirlo in maniera perentoria, ma a tutte e due parve proprio così.

Lei mi guardò quasi contrariata, ma poi accettò l'abito, si alzò e con una lentezza esasperante si tolse felpa, maglietta e jeans. Era dall'estate dopo le scuole medie che non la vedevo così nuda, rimaneva magra, ma non più esile, non più Vampirina, non più con le ossa delle spalle e dei gomiti in evidenza. I seni erano sempre piccoli, molto piccoli confronto ai miei, ma c'erano, ed avevano una grazia che forse solo lei non vedeva.

Indossò il vestito dalla testa, le stava leggermente largo ma nulla in confronto alla luce che emanava. Si annodò i capelli in una specie di crocchia alta e fece un giro su sé stessa sorridendo.

Lo stomaco mi si annodò, nel guardarla dal basso verso l'alto, a sedere dal letto. Ero da una prospettiva simile a quella che i ragazzi avevano quando mi vedevano ballare, e in quel momento ero io a guardare lei.

Attaccai il mio walkman alle casse della sua radio, lo feci partire, iniziai a ballare direttamente sul suo letto.

«Sali Vale, fammi un po' vedere come saresti se facessi la cubista!».

Tentennò ma poi salì, facemmo le sceme a ballare sul letto, andandoci addosso continuamente, sulle note di "Need in U" di David Morales.

Doveva venire con me a ballare, dovevamo andarci assieme, doveva. Era un imperativo che mi si scolpì in testa, legato indissolubilmente all'immagine di Valeria che indossava il mio vestito, in piedi sulla sua coperta, muovendo i fianchi e girando su sé stessa, riflessa nello specchio della sua camera.

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