Capitolo 4

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Seduto nella veranda di Matthew ad un tavolino da tè in marmo, aspettavo che tornasse portando qualche biscotto o dei muffin, che ricordavo gli piacessero particolarmente.
Il pomeriggio era tiepido e un leggero odore di glicine aleggiava nell'aria.
La pianta, arrampicatasi su alcuni supporti, si trovava proprio nella veranda a qualche passo da me. I suoi fiori delicati, dello stesso lilla del suo vestito quella sera, cadevano in continuazione, tanto che si era così formato un tappeto profumato ai suoi piedi.

Matthew, prima di dirigersi in cucina come aveva detto, si era curato di far partire con il giradischi un vinile di musica classica piacevole, ma che non riuscivo ad identificare. Ora le note rilassavano i miei pensieri, che non erano più incentrati sulla stressante idea di dover passare le settimane successive a scrivere per aggiudicarmi come al solito il primo posto nel concorso letterario che a breve sarebbe iniziato, bensì su alcuni personaggi che la mia mente aveva plasmato per il mio romanzo. Personaggi interessanti, ispirati a persone che a differenza loro, non avevano tutto quel fascino. Attori di un teatrino drammatico, che entravano in scena uno dopo l'altro, catturavano l'attenzione dello spettatore e sparivano così com'erano apparsi.
E proprio mentre li immaginavo inchinarsi in modo teatrale al pubblico, pronti ad andarsene, Matthew tornava annunciando la sua presenza con una risata.
E non era solo.

Era distratta, rideva ancora con Matthew in modo soave come se tutto le fosse sempre andato bene, come se ogni cosa nella sua vita andasse per il verso giusto, come se ci avesse tutti in pugno, perché lei non era come tutti gli altri e sapeva di non esserlo. Le ciglia lunghe, gli occhi freddi, i capelli scuri... sembrava fatta apposta per essere assecondata, per convincerci a cadere ai suoi piedi.
E a lei non bastava ciò che già aveva.
Lei voleva tutto.
Avrebbe preso il mio posto, rovinato la mia carriera, per un capriccio.

Nel momento in cui spostò le sue iridi chiare su di me e venne riportata alla realtà, un ricordo che avevo rimosso tornò con la consapevolezza che la mia era stata una mossa stupida e avventata, quella di imbucare la lettera.
Non ci avevo più pensato, involontariamente era finita nel dimenticatoio e ora era tornata, con la buffa scusa di rendermi nervoso e mettermi ansia forse.
L'aveva letta?
Era consapevole l'avessi scritta io?
L'aveva fatta vedere a qualcuno?
Si sarebbe presa gioco di me?
Mentre quei dubbi mi torturavano e io combattevo per mostrare la solita maschera di insufficienza e noia, colsi un'espressione nel suo volto.
Sorpresa? Disagio? Non lo seppi dire, ma qualunque cosa fosse, mi diede la certezza che speravo di percepire dall'inizio: lei non credeva avessi scritto io la lettera.

Seduta ormai su una delle sedie attorno al tavolino, mi guardava curiosa, quasi come se fossi un fenomeno da baraccone al circo, quello che viene tenuto per ultimo perché è il più strano e sorprendente.
«Buon pomeriggio» dissi allora, per spezzare quel silenzio imbarazzante, «negli Stati Uniti è una consuetudine fissare la gente che si ha appena incontrato?».
Lei si svegliò come da uno stato di trance e mi fece una smorfia, «da noi non si vedono molto spesso scrittori inglesi con una passione per gli ornamenti... floreali».
Di fianco a lei, Matthew che intanto versava il tè, scoppiò in una profonda risata gutturale, e pianse, di gusto, perché lui era solito essere teatrale. Mentre si ricomponeva e entrambi lo guardavamo asciugarsi gli occhi con un fazzoletto in stoffa, aggiunse «molto originale da parte tua Oliver, ma non pensavo ti fossi dato alla moda» e rise di nuovo, stavolta in modo più moderato.
Ero confuso e imbarazzato senza nemmeno saperne la ragione.
Aggrottai le sopracciglia quando la Morrow protese una mano verso la mia testa, ma scoprii troppo in fretta che non era una stramba richiesta di contatto fisico, ma solo un modo per spiegarmi ciò che stava accadendo.
Estrasse dai miei capelli quattro o cinque fiori di glicine, che evidentemente erano rimasti incastrati tra i ricci, sorridendo come chi ha tutto sotto controllo e si diverte a sbeffeggiare chiunque.
Eppure io non l'avevo vista sbeffeggiare nessun altro, oltre me.
Contrassi la mascella dal fastidio della sua presenza, del suo profumo nell'aria, della sua risata.
Mi aveva forse scelto come preda?
Stava cercando di prendere il mio posto?

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