6. L'appuntamento

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Mentre tornavo a casa vedevo gruppi di colleghi fare un brunch nei dehor dei bar, pensionati che facevano la fila dai fruttivendoli, ma comunque felici della loro mattinata. Tutti, ai miei occhi, lo erano: chi più, chi meno, ma lo erano tutti. Tutti tranne me. Avevo un accenno di sorriso sul viso ma era più che falso; in quel momento, per quanto avrei dovuto sentirmi meglio, non ci riuscii. Continuavano a passarmi per la mente pensieri veloci come fotogrammi su Jackson e Jessica. Ripercorsi tutti i bei momenti che avevamo passato negli anni precedenti all'incidente; fui come teletrasportato laggiù: un'oasi dove tutto era perfetto così com'era e non si poteva chiedere di più. E' stato stupendo a dir poco rivivere quei ricordi, frammenti di memoria che sai ti rimarranno in testa per sempre. Senza rendermene conto, mi ritrovai di fronte alla porta d'ingresso di casa mia. Pensavo che, almeno per un po', i problemi mi avrebbero lasciato stare, invece fui chiamato da Mary in cucina per parlare.

"Hai dormito bene?" Mi chiese distogliendo il suo sguardo dai fornelli, dato che stava cucinando per pranzo.

"Sì, certo, perché?".

"Ieri sera ti ho visto un po' troppo ubriaco e, più che altro, è tutto ok con Jackson?" Mi disse, abbassando la voce e avvicinandosi a me per sentire meglio la risposta.

"Beh ... direi di sì".

"Guarda che vi ho sentiti urlare; non mi mentire Alessandro" Replicò con voce dolce.

"Va bene ... abbiamo discusso perché lui vorrebbe riprovarci; intende come fidanzati. Ho detto di no perché non riesco a dimenticare Jessica; mi manca troppo e poi non so se sia la cosa migliore rimettermi con lui" Dissi con tono dubbioso.

"So che è complicato voltare pagina, specialmente per lei, ma non puoi fermare la tua vita solo per quell'accaduto. Devi provare ad andare avanti. Poi, se non vuoi metterti con Jack è una tua scelta, ma devi provare anche a cambiare ambiente, magari". Riflettei un'attimo: forse zia non aveva tutti i torti. La ringraziai molto per quel buon consiglio. "E dimmi un po' invece: chi era quel bel ragazzo biondo che ti ha riportato a casa?". Ero abbastanza stupito dal fatto che lei l'avesse visto; pensavo stesse dormendo sul divano.

"Lui si chiama Austin. Lavora al Central Cafe e l'ho conosciuto qualche giorno fa. E' molto simpatico, stupendo, gentile ..." Fui interrotto da Mary che aggiunse:

"Una bella cotta, vero?" Disse, facendo l'occhiolino e poi mettendosi a ridere; risi anch'io. Era però una risata diversa da quelle normali, la sua riusciva a farmi sentire veramente bene e sorridere di gusto.

[...]

Passarono un po' di giorni prima di riuscire a rivedere il 'mio bellissimo cameriere'; non vedevo l'ora. Ero molto eccitato all'idea di incontrarlo un'altra volta e creare numerosi ricordi assieme. (Forse stavo cercando un po' di rimpiazzare i nostalgici ricordi di Jessica, con quelli nuovi; questo era quello che Ramona e zia intendevano con "voltare pagina"). Arrivò, con il suo tempo, la calda sera, accompagnata dal dolce cantare degli uccellini e le nuvole che prendevano un colore arancio, come spugne che assorbono la pittura fresca su un quadro in fase di realizzazione. Mi sentivo come di fronte ad un capolavoro, ma era solo il cielo. Stavo per partire di casa per l'appuntamento, quando vidi uscire anche Jackson, così gli chiesi:

"Dove vai?"

"Vado in giro con i miei amici, probabilmente a bere qualcosa fino a tardi, quindi dì a zia di non aspettarmi" Rispose. Notai che dalla sua tasca gli usciva una specie di cappello nero, di lana probabilmente. "Tu invece dove stai andando?"

"Io mi vedo con un amico" Replicai, un po' pauroso della sua reazione "Anche noi andremo in qualche pub".

"Va bene. Buona serata" Mi disse. Dopo la nostra litigata, aveva un atteggiamento più pacato e sembrava essere in colpa; in colpa per ciò che mi aveva detto.

"Divertiti anche tu".

Io e Austin decidemmo di incontrarci (casualmente) davanti al bar, in Southside park. Arrivai tranquillamente in anticipo, come spesso mi capita, e così mi sedetti su una panchina ad aspettare. Mi feci cullare dai suoni soavi del parco: mi sembrava di essere in una fiaba. Peccato che in queste vada sempre tutto bene; a me no. Notai, infatti, che dopo una buona mezz'ora lui non si era ancora fatto vedere. Iniziai a preoccuparmi: mi aveva preso in giro? Si era dimenticato? Gli era successo qualcosa? Per togliermi ogni dubbio, lo chiamai. Il dolce cinguettio fu sostituito dalla noiosa segreteria telefonica. Chiamai più volte, ma niente, non rispondeva. Per sicurezza aspettai ancora, e ancora, ma non arrivò. Sono stato più di un'ora lì seduto, ma di quel bel faccino, non c'era traccia. Così, arrabbiato e anche un po' deluso, me ne tornai a casa.

Trascorsero ore e neanche un suo messaggio. Ero furioso a dir poco; non potevo crederci, mi aveva dato buca. E idiota io che ci avevo creduto per anche solo un secondo; creduto che sarebbe finita bene. Passai l'intera sera ad aspettare, invano, fino a quando il sonno non ha avuto la meglio sulla mia ansia.

Il mattino seguente mi alzai un po' con la luna storta e perciò non parlai con la mia famiglia. Avevo un solo pensiero che transitava nella mia testa: sapere che fine aveva fatto lui; e l'unico modo per farlo, era andarlo a trovare sul suo luogo di lavoro. Mi diressi dopo colazione verso il medesimo locale, alla ricerca di colui che aveva preferito fare altro che uscire con me.

Arrivato, lo cercai ma non lo vidi da nessuna parte, né dentro né fuori; chiesi, così, ad una sua collega se aveva notizie.

"Non l'hai saputo?" Mi disse, stupita. Feci cenno di 'no' con la testa. "Austin non verrà al lavoro per un po' perché è in ospedale". Non credevo alle mie orecchie: ero scioccato; pensavo fosse uno scherzo. Invece non lo fu proprio.

"Cosa gli è successo?".

"Ieri sera è stato aggredito, probabilmente da un gruppo di vandali".

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