Capitolo Uno

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Cosa succede?
Un suono mi tormenta come appiccicando una patina sull'anima.
È il mio cuore. Lo sento nel buio in cui mi sto rifugiando. Da cosa io non so, non importa, non mi riguarda. Il problema è come sappia che questo sonno non possa durare a lungo, perché sto riprendendo coscienza del corpo, delle braccia, del mio essere qui ed ora. Vorrei durasse di più questa inconsapevolezza della realtà, ma non posso barricarmi in un letargo: anche provando a restare dormiente, tutto il resto di me inizia a svegliarsi e non posso fermarlo.
Vedo nero, ne sono imbevuto. Il suono è già più debole: medito di meno su di lui. Un tepore mi coccola le palpebre. L'oscurità che mi avviluppa mi ricorda il grembo materno, mi sembra di essere un feto: sono fermo ed indifeso.
Uno squarcio si distende nel mio campo visivo in una sfocata luce, dalle primitive chiazze confuse si formano come sfociati da una nebbia oggetti e colori d'ogni sorta; ogni cosa acquisisce un senso, o circa.
Il soffitto di gesso, statico, si presenta agli occhi. Abbassando lo sguardo mi accorgo delle punte dei piedi e del petto, che sale e scende col respiro. Sono sdraiato, il torpore m'annega il corpo molle ed inerte nelle pieghe del materasso, ma senza lenzuola che mi avvolgono ho inoltre un'altra sensazione... freddo. La finestra è aperta; un tenue vento s'insinua soave come una piuma di colomba, frusciandomi nelle orecchie. I fiocchi di neve danzano nell'aria, si attaccano sulla superficie di vetro bagnato e coprono l'intero davanzale.
Tocco con i piedi il pavimento; contraggo per un momento le dita dei piedi, perché il pavimento è freddo che sembra di ghiaccio. Sono in penombra ed aggrotto la fronte, scorgendo i mobili della mia camera d'infanzia e la libreria con i libri scolastici, sistemati con rigore militare l'uno di fianco l'altro in ogni scaffale rosso. C'è persino l'orsacchiotto che abbracciavo nelle notti in cui mi sentivo solo.
Una parte di me prova una strana ed insulsa nostalgia, ma un'intuizione mi suggerisce come non dovrei sentirmi così e considerare, invece, ogni avvenimento che si sta succedendo come il preludio per qualcosa di orrendo. Perché sono qui?
Mi alzo come un morto rinato: sono terrificante appena sveglio.
Un soffio d'aria invernale mi carezza la faccia, come se il cielo emanasse il suo respiro su di me. Il gelo inespressivo penetra nelle braccia e nel torace come un fantasma. Ho chiuso la finestra ma la stanza resta nella sua essenza vuota ed inospitale. Ogni oggetto è al suo posto, governa la pulizia e l'ordine, come un'acconciatura senza un capello sottosopra. Non ho sentori di minacce, ma non vorrei trovarmi qui. Ad ogni modo, farmi prendere dal panico è inutile. Cammino come ho camminato migliaia di volte nella semplice stanza. Sono a casa; lo so, perché in quest'ordine mi sento fuori luogo.
Aprendo la porta mi pento di averlo fatto: un silenzio tombale infesta la casa, trapassando ogni angolo, serratura, infisso; m'attorciglia le viscere, mi scombussola lo stomaco. Non vi sono forti rumori oltre i miei pensieri. Non esiste nulla che fa di sottofondo ai miei passi; c'è soltanto la lieve, immateriale freddura, entrata in ogni dove, con la sua languida lentezza. Echeggiano i miei passi che tento di rendere felpati sulle scale di legno; tento di fare quanto meno casino possibile; scendendo assottiglio gli occhi a causa della luce prodotta dalle lampade del soggiorno.
Ogni cattivo presentimento che mi stava procurando questa casa si dissolve nella felicità di un attimo che emette questa stanza. Ha un aspetto delicato, piacevole; mi sento al sicuro come quando ero piccolo in uno di quei maglioni che cuciva con cura mia madre; rimembro i profumi delle cene condivise con la mia famiglia... ma non c'è cibo e comunque non ho fame.
«Mamma?» chiamo con calma la prima persona che mi salta in mente; l'aria sussurra in risposta e la mia vista va alla superfice nevosa che scorgo oltre la finestra. Allora provo: «Papà?» con un tono più interrogativo, contenendo le mie insicurezze. Ma... ma so che ho chiesto della persona sbagliata... allora perché l'ho fatto? Pur sapendo...
Nessun segno di una voce tranne la mia.
Un desiderio di uscire s'impadronisce di me. Indosso una felpa ed un parka, mi copro il capo con un cappello di lana. Proteggo il collo con una sciarpa, bado a lui come se fosse mio figlio. Afferro le chiavi dalla consolle ed esco.
Trovo strade immacolate prive di una traccia di scarpa sul suolo limpido ed incorrotto. Un'estesa distesa di neve in un quartiere apparentemente senz'anime. Le abitazioni sono in buono stato, ma sembrano abbandonate. I fiocchi calano e si posano sul giubbotto nero, cospargendolo di puntini bianchi come stelle in una notte cupa.
Sono in un sogno?
Mi sento come se possedessi un cratere al posto della gabbia toracica.
La brezza sibila come un flauto maltrattato. L'aprirsi delle nuvole sparge un'eterea alba, che tinge d'oro il cemento innevato come se il mattino si fondesse in lui. Allontanandosi dalla luce il cielo è di un blu profondo come gli abissi marini. Il sole è indeciso se sorgere o dare spazio alle tenebre; nel crepuscolo il tempo si ferma e la Terra non ha orario. Dò un'occhiata ai crisantemi nel giardino, meravigliosi e pallidi come una donna stanca.
Procedo sulla neve, in questo quartiere desolato. Con le mani nelle tasche del giubbotto, comprimo il corpo su me stesso in un'illusione di conforto dal pungente ed irreversibile gelo.
E mi chiedo: che cazzo sta succedendo?
Il quesito mi perseguita; mi è impossibile trovare soluzioni al grattacapo che poi, dopo poco, non mi facciano scuotere la testa. Cammino con l'espressione inquieta di chi si è perso, ma è un luogo che conosco. Ad ogni passo compiuto odo una vocina interiore che m'intima d'affrettarmi, come se fossi spiato da occhi sbarrati, nascosti oltre quelle tapparelle abbassate che accomunano le case di questo quartiere. Ottuse case, hanno la stessa strana forma, verniciate con colori vivaci come fuoriuscite da un cartone animato. Si slanciano in alto come il collo delle donne dipinte da Modigliani, possiedono porte asimmetriche, hanno giardini con cespugli invasi da crisantemi bianchi.
Mi dirigo alla stazione dei treni: credo sia la via migliore per raggiungere il centro della città e trovare qualche persona in giro, se ci stanno persone in giro. Percorro una strada spolverata dai recessi della memoria: frequentavo questo tragitto quando mi recavo a scuola, in quegli anni dell'adolescenza dove apprendi come i tuoi genitori siano lungi dalla perfezione (ed io lo capii in un pessimo modo).
Entro nella stazione ferroviaria; il soffitto si trova a quindici metri di altezza, per cui mi sento piccino, come fagocitato da una creatura enorme. Gli stivali calpestano l'impeccabile pavimento di marmo; generano un'eco. File di sedie rosse sono attaccate schienale contro schienale, come persone che siedono coprendosi le spalle. Dai lucernari piovono i raggi di un sole ormai desto, come una presenza malevole che m'accoglie in un nuovo mondo. La mia ombra è stesa sotto i miei piedi.
Il tabellone appunta gli orari delle corse dei treni, ma sono indicati in una scrittura illeggibile, con le lettere striminzite come nella calligrafia di un medico; mi è incomprensibile il binario da dove partono o per dove vanno, però resiste in me una vecchia abitudine e perciò so dove recarmi.
Non ci sono i controllori; supero la sbarra dei biglietti scavalcandola.
Alla fermata aspetto, l'apatico freddo mi punge il viso e s'inietta oltre il tessuto dei vestiti, arrivando alla pelle. Il tempo scorre lento e dolorosamente come una tortura medievale. Immobile, pazientando, mi sento intrappolato come Lucifero nel Cocito. Cartacce, mozziconi di sigaretta, bottiglie di plastica sono sui pietrischi dei binari, sepolti nella neve. Provo solitudine.
Il treno giunge dopo una decina di minuti. Avanza col suo muso argenteo e rosso come un diavolo asceso dall'Inferno. Il corpo metallico del treno conserva al suo interno centinaia di sedie vacanti, come una platea priva di spettatori. Come fa ad essere vuoto ogni posto? Ho un moto di repulsione. Dov'è la gente? Nessun pendolare?
Il treno s'arresta in un frastuono, arriccio il naso come udendo una sviolinata acuta ed orrenda. Le porte automatiche si separano mostrando un'accogliente sfumatura di bianco come le pareti di un ospedale. Dovrei andare, ma perché sono fermo? Mi è complicato fare quel passo, come se due blocchi di marmo si fossero sostituiti alle caviglie. Non voglio proseguire, però la verità è che non voglio neppure tornare dov'ero prima. Potrei farmi la strada verso il centro della città a piedi, ma se mi trattenessi nel gelo rischierei un malanno. Quindi, passo irrisorio, ti eseguo trasognato, tra la realtà e l'illusione.
Sono nella cabina dei passeggeri. Resto alzato, evito di sedermi: uno sciocco timore mi mormora che se lo facessi delle mani nel sedile dietro di me mi prenderebbero, staccandomi il capo dal collo.
Il treno sfrigola sui binari. Vedo la fermata impicciolirsi. Sparisce. M'addentro nella bocca della galleria. Le lampade si spengono.
Mi patto le tasche dei jeans... tocco le chiavi, alcune monete che ho dimenticato, ma non ho il telefono appresso. Cerco di calmarmi: non può succedermi qualcosa in un treno vuoto.
Rintronano le ruote del treno sulle rotaie. Le mie orecchie sono tese, pronte a captare qualunque suono si possa palesare. Il respiro mi si fa corto ma mi calmo: sono al sicuro.
Vorrei avere gli occhi di un felino per vedere nel buio, ma possiedo quelli di un umano e nella paura desidererei tornare bimbo, credere che i miei genitori verranno a soccorrermi. Ma è un sogno; lo è? So di essere uno stupido, ma perché lo sono stato tanto da entrare nel vagone?
La temperatura sale. Lentamente, il calore attornia la cabina. Dei lamenti di cui non riconosco l'origine iniziano a diffondersi. Li odo, non sto delirando. Non sono capace di distinguere se siano vicini o distanti. Nel mezzo di queste urla identiche a quelle di un animale in agonia, sento il sussurro di una voce intrisa di una cattiveria infinita; mormora in una lingua a me ignota, come se esprimesse sortilegi nei miei confronti. Mi sembra di essere finito in mezzo ad un rituale. Contorco il viso in una smorfia e mi metto le mani alle orecchie, perché mi stanno infastidendo questi strilli rotti, di esseri umani che sembrano in preda ad un flagello, alternati da sommessi singhiozzi. Ho un tuffo al cuore. Cosa dovrei fare? Il corpo mi si pietrifica come se avessi incrociato il cipiglio di Medusa. Mi sento i peli delle braccia alzarsi. Mi sembra di essere in un forno crematorio. Mi sembra di essere...
Vorrei gettare via ogni vestito; vorrei staccarmi la carne, perché la pelle è di troppo; vorrei il calore cessasse o calasse ed al contrario cresce. Accosto la mano tremolante al collo coperto dalla sciarpa, oramai la sento legata come un cappio. Respiro affannato; ed urlo quando un alito putrido e sconosciuto mi sfiora la nuca.
Sbotto, impreco, nel panico caccio blasfemie; mi muovo agitato con le braccia avanti, con un banale presentimento della direzione. Urto col fianco una sedia. Le voci sghignazzano il mio nome. Si prendono gioco di me. Non sanno che per me il mio nome non ha alcun significato. Devo afferrare il freno d'emergenza.
Torno indietro; vado avanti; non so dove mi convenga andare. Torno indietro, brancolando come un cieco privato del suo bastone. La breve strada che ho fatto mi sembra che non finisca più. Mi muovo con le mani che toccano alla rinfusa l'aria, infine prendo e tiro il freno d'emergenza. La condotta pneumatica si scarica, il treno s'inchioda in un sonoro e raccapricciante stridore. Le porte si spalancano.
Il calore si blocca; assieme ad esso, si fermano i lamenti, i gemiti, le grida.
La luce torna a funzionare. Una foschia venuta dalla galleria striscia nel vagone, pervadendo in poco tempo l'intero treno. Quando provo ad uscire, vengo interrotto da una scia di falene bianche che caccio via dalla faccia muovendo a caso le braccia. Quando riprendo il controllo di me, scorgo in fondo al vagone una figura che levita, i piedi a qualche centimetro sopra il pavimento.
È una figura familiare.
Incombe con la sua figura minuta, muovendosi in un modo soprannaturale; e quando il viso si fa abbastanza vicino da identificarlo, emerge con chiarezza il viso di mia madre. I suoi lunghi capelli ricci e corvini le arrivano alle spalle; sono come li ricordavo: i capelli più belli che abbia mai visto.
«Hai lasciato la tua povera madre da sola», dice in un'acuta e fredda voce. «Non ti vergogni?»
Trattengo una risata. «Tu mi hai fatto sentire solo una vita intera!»
Mi fissa, con i suoi occhi neri, grandi, perquisitori. «Voi uomini... tutti uguali. Mi fate pena. Voi maiali, abietti e ciechi, berciate di continuo sulla vita, vi lamentate per ogni più piccola cosa. Io vi odio.»
Il suo viso si sta deformando, come se cadesse a pezzi; i suoi capelli si alzano, toccando il soffitto della cabina.
«Vi ho sempre odiato, ma dobbiamo partorirvi, perché noi, a nostra volta abbiamo la colpa di essere nate donne. Ho perso tutto, ma tu non hai mai avuto niente. Ho generato un mostro. Mi vergogno di te. Sai cosa pensano gli altri? Che sei un deviato ed avrai bisogno dello psicologo per sempre».
Mi tremano le gambe; alla fine cedo, m'inginocchio a terra, scosso ed appesantito.
«Basta», supplico, picchiandomi la testa. «Non ce la faccio più. Lasciami stare.»
Mi sento le guance avvinghiate da delicate dita; quelle dita mi indirizzano verso un volto dolce, pieno di empatia: il volto di mia madre, ora calmo, dagli occhi che trasmettono affetto e comprensione.
«Tua madre ti adora. Sei la mia creatura, per questo condividiamo la stessa sorte; amore mio, siamo entrambi inguaribili.»
Ammiro quel viso, pallido e conosciuto; mamma, la mia Ecate.
L'abbraccio, commosso.
«Mamma, perché?» singhiozzo. «Quando papà se ne andò, mi restavi soltanto tu. Allora perché, mamma? Perché mi hai trattato così male?»
Gli eventi che si stanno susseguendo mi sono confusi, come se la mia testa fosse inebriata dagli alcolici. Mi sento correre sulla massicciata, lanciandomi verso la luce in fondo al tunnel, ma dietro, a sinistra ed a destra è tutto nero, come se fossi un piccolo spazzacamino.
Dio, fammi arrivare alla fine. Calma l'ottuso panico. Non far partire quella creatura d'acciaio alle mie spalle. Rabbonisci questi lamenti costanti che mi stringono lo spirito. All'immagine dell'Eterno io non credo, ma mi sento di vetro e per questo prego.
Mi duole il fianco, si ottenebra, lo mantengo, inspiro col naso, espiro con la bocca. È così che si respira in una corsa, vero? È così che si corre?
L'ho uccisa? L'ho uccisa davvero?
Il suo sangue mi è finito sulle mani.
Gambe, non rallentate. Non adesso che un motore alle mie spalle inizia ad accendersi.
Un fischio vibra nei timpani e la visione del Signore si contestualizza nella prima stazione accessibile. Salgo sulla piattaforma ed acciuffo fiato come salvo dall'affogamento. Nella galleria, dei fanali come occhi di una belva mi guardano assorti. Ne ho un'atavica paura. Ho avuto un'idea mediocre a prendere il treno. Sono stato un idiota.
Il suo sangue mi è finito sulle mani; le fisso, queste sporche unghie cremisi. Dopo che ho abbracciato mamma, non ricordo niente. Ricordo un caldo atroce; dev'essere per questo che ora sono rimasto con una maglietta a maniche corte. Arrivato alle scale dell'uscita, mi giro. Dei ghigni di scherno vanno dissipandosi con il treno che li trasporta in sé.
Salgo le scale, la luce naturale del sole fa capolino sugli ultimi gradini, mano nella mano col freddo come due sposi. Ha smesso di nevicare. Il cielo ha regalato un manto niveo sui tetti, sui marciapiedi, sui giardini, sui cespugli. Il quartiere è taciturno come un'entità che si è appena appisolata. Dalle grondaie la neve si scioglie in gocce d'acqua. Cadono come farebbero da un rubinetto. Bagnano il suolo.
Il respiro mi si condensa in un'esile nebbia. La stanchezza mi travolge. Scendo con le dita sul viso, partendo dalle sopracciglia, alle palpebre stanche; chiudendole vedo chiazze arancioni. Mi sporco il viso di sangue. Faccio un sospiro di sollievo sui palmi. Tiro la pelle con gli indici ed i medi, rivelando il rosso degli occhi; mi pizzicano. Calandole, le dita fanno sporgere il labbro inferiore; intanto alzo il collo, contemplo il cielo e sono tanto grato che quell'incubo sia finalmente finito.
Ho passeggiato a lungo in questa città surreale, finché non ho letto questo poema scritto in rosso sulla facciata di un negozio di giocattoli. Lo ricordo con precisione: è un poema che scrissi quando avevo quattordici anni; cercai di mettermi nei pensieri che passavano in mia madre in quel periodo; mi sentivo incompreso da lei e provavo una pessima miscela di amore e odio.

T'ho fatto del male

Sono imperdonabile

Mi spezzerei le braccia

Per renderti felice

Tu sei in salvo in me

Ma in gabbia

Rilassati quanto ti pare

Perso nella serenità di

Baci e carezze andati

Ti sono di conforto addirittura

Se ti rattristo

Ho sprecato i miei anni di gioventù per te

Ti sono distante ed accanto

In tempi difficoltosi

In istanti di riflessione

Leviti

Prima di ritorcerti nella battente pioggia

Con i tuoi caduchi giocattoli

Dell'esistenza di questo poema, soltanto io ne sono consapevole; per questo motivo, mi sento preso in giro; questa città sta giocando con me da troppo tempo. Ho camminato tutto il giorno a maniche corte, cercando la morte, fustigato da un freddo siderale. Ho girato per una città deserta, poi ho raggiunto nuovamente la mia casa. Ho introdotto le chiavi nella fessura e l'ho aperta. Non sapevo dove altro andare; ho buttato le chiavi sulla consolle all'ingresso e ho sbattuto la porta dietro di me. Ora sono coperto in un lenzuolo sul divano del soggiorno ed i miei pensieri turbinano finché, alla fine, continuo a chiedermi: cosa sta succedendo? Dove sono? Non capisco come sia resistito per ore ed ore contro un gelo del genere senza crepare di ipotermia. In verità... forse lo so il motivo.
Il sole sta cadendo in un tramonto di miracoloso splendore; la sfera vermiglio scende come se si stesse squagliando nell'orizzonte. Le mie mani, la poltrona, la casa si sono tinti di rosso. Le pareti ne sono permeate.
Ho fame. La bocca mi è secca. Mi è indifferente. Ogni senso è avvolto in un cellophane scarlatto. Le braccia e le gambe mi si potrebbero atrofizzare e non m'importerebbe. Una parte di me vorrebbe muoversi, tuttavia ne sono incapace come se il corpo avesse deciso di zittirsi ed ignorarmi. Non riesco a focalizzare il lampadario, i mobili, la porta. L'anima mi è assente, ha prosciugato il fisico ed è partita.
Passano i minuti. I segni della sera svelano un cielo violaceo. Una maledizione ha avvelenato l'universo. Alla prossima alba perlustrerò ogni luogo in cerca di qualcuno. Se non avrò scovato nessuno, scapperò da questa città. Guardo i quadri attaccati sui muri. Sono insignificanti, con colori insulsi e spassionati.

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