Capitolo Due

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Ho riposato male, in un costante stato di ansia. Ho sentito, o penso di aver sentito, dei passi mentre dormivo. Adesso il mondo si è spento, è scesa la notte, non so che ore sono; ascolto il frusciare indifferente del vento che sbatte le finestre. Un odore sgradevole si fa largo nelle mie narici, ma non ho voglia di alzarmi. Non voglio aprire gli occhi; con il tempo, però, notando che lo strano odore non fa che diventare più intenso, per istinto finisco per farlo. Vedo una scia di insetti nel cielo fuori la finestra aperta: falene dalle ali, il corpo e le zampe rivestite di scaglie simili alla polvere, con le antenne piumate e spesse, volano seguendo una luce argentea.
Questa casa... è un trauma soltanto respirare la polvere che l'ha infestata a causa dell'incuria. Quando apro per bene gli occhi e vedo la fonte di quell'odore nauseante, mi alzo dal divano. Il pavimento è invaso da mille cartacce sparse ovunque, che puzzano e sono macchiate da urina e feci.
Non mi trattengo: mi volto nella direzione opposta e mi piego per vomitare. Quando mi riprendo, mi accorgo che la finestra sia chiusa. Evito le cartacce sparse a terra per arrivare alla porta d'ingresso, vorrei uscire per cambiare aria, ma è bloccata, non so perchè. Mi giro; una luce gialla, proveniente dal piano di sopra, illumina le scale a chiocciola.
(...boom boom...)
Non posso che avvicinarmi ed iniziare a salire le scale; ascolto il cuore accelerare i suoi battiti. Non sento il corpo muoversi per mia volontà.
(...boom boom...)
Al piano di sopra, uno stretto e lungo corridoio; con cautela, proseguo finché non si presenta la porta della stanza da letto in cui mi sono svegliato stamattina. Ho bisogno di risposte; non posso farne a meno. Devo aprire questa porta.
(...boom... boom... boom...)
La stanza non è come prima. È diventata enorme e non compare nessuna traccia del mio passato, sembra non abbia mai calpestato questo pavimento prima d'ora. La stanza ha le pareti tinte di nero e più le guardo più mi sento affogare in quel buio paralizzante.
La stanza è illuminata da luci fluorescenti; producono un costante ronzio di sottofondo. Al naso, mi arriva una puzza di tappeto umido; questa stanza sa di vecchio, dà l'impressione di contenere una verità antica come la vita stessa. Cosa dovrei fare?
Girandomi, spalanco gli occhi; mi sento mancare un battito, come se la terra mi fosse sprofondata sotto i piedi: c'è un immenso muro, ma la porta non c'è più. L'unica porta in questa stanza è dall'altro lato, ed è anche l'unica strada che possa intraprendere adesso. Appena l'apro m'imbatto nella stessa, identica stanza con le pareti nere come annegate nell'inchiostro. In mente mi sorge una domanda seppure non ne capisca il significato. Mi domendo se sia fatto così il sangue di un angelo.
In fondo la stanza, un'altra porta. Girandomi, di nuovo un immenso muro, ma con appesi dei disegni creati dalla mano imprecisa e spontanea di un bambino; giurerei che quei disegni non fossero presenti prima e se li osservo meglio, capisco: quei macelli li ho concepiti io quando frequentavo le elementari.
Quando apro la nuova porta in fondo la stanza, non posso che provare sconforto nel momento in cui, portando il mio occhio irrequieto su ogni dove, non scopro una vera via di uscita ma - un'altra dannata volta - pareti dove non esiste altro che il colore buio della morte.
In fondo al corridoio, una porta; a fianco la porta, un gigantesco pupazzo di pezza - un orsacchiotto dal tessuto sporco e strappato in varie parti, senza una gamba, con la bocca mezza aperta, armata di denti aguzzi e sporchi. Non so dove trovo il fegato per arrivare alla fine della stanza ed aprire l'ennesima porta.
Nessuna luce, nessun suono, nessun odore; aspetto che gli occhi si adattino al buio, ma nessuna forma o contorno di qualcosa appare. È un'oscurità densa che renderebbe impossibile a chiunque vedere. Non esistono sensazioni oltre al freddo ed alle scarpe piantate sul pavimento.
Lento ed attento, le mani protese in avanti, raggiungo la fine della stanza ed agguanto la maniglia della porta (ho creduto con cognizione di causa mi stesse aspettando un'altra porta, nello stesso punto). Il corridoio in cui ero fino a qualche minuto fa si presenta al mio campo visivo ma mi tremano le gambe, per cui...
(...boom boom...)
Non voglio andare avanti, ma le gambe si muovono come di vita propria. Camminando per il corridoio, una voce singhiozza. Le pareti con questa poca distanza tra loro mi fanno sentire claustrofobico; non voglio stare un secondo in più in questo spazio angusto.
Apro la porta in fondo al corridoio.
Per l'ennesima volta, sono nella stanza dalle pareti nere, ma in fondo alla camera, la porta è socchiusa, lasciando fuoriuscire una luce rossa rubino.
(Stupido.)
È la voce, fredda e acuta, di cui pensavo d'essermi liberato.
Aprendo la porta, una figura minuta levita, le braccia e le gambe abbandonate come un corpo privo di vita. La donna singhiozza.
«Amore...» piange sommessamente. «Il mio bambino... il mio bambino...»
«Non volevo», mormoro e parlarle mi fa male. «Non è stata colpa tua.»
«Il mio bellissimo bambino... Perché?» sibila la donna.
Non riesco a rivolgerle la parola. Ammutolisco completamente.
«Sono stata una cattiva madre...» comincia a dire lei ma non finisce la frase. Forse non c'era nessuna frase da finire. Mamma tossisce, biascica cose senza senso ed emette un prolungato suono di afflizione, un suono inconsolabile, perché niente le potrebbe portare indietro suo figlio.
Mamma toglie le mani dal viso e svela un viso imbrattato di sangue. Sulla gola, è disegnato un solco profondo.
«Piccolo mio, perchè mi fai questo?» fa con voce distorta, cambiando completamente atteggiamento, lacrime scarlatte le bagnano le guance. «Mi hai ucciso. Una madre non dovrebbe vedere il figlio ridotto così.»
Mia madre affloscia la testa da un lato e perde i sensi.
Apro la porta che avevo alle spalle, mi trovo nella stanza dalle pareti nere, poi nel corridoio; infine alle scale a chiocciola che scendo senza prestarci attenzione. Ciò che pensavo prima di farlo è vero, dunque. Non mi sarei mai liberato dal senso di inadeguatezza e dal senso di colpa.
Mi accuccio vicino al divano, celo il mio viso sotto le ginocchia e scoppio a piangere.
Passa del tempo, non so dire quanto, ma si sono asciugate le mie lacrime. Una voce maschile comincia a chiamare il mio nome; so a chi appartiene, ma non posso fidarmi. Vado in cucina, afferro un coltello. Mi metto attaccato alla parete; attenderò venga qui e lo prenderò a pugnalate. La voce persiste ad interpellarmi, ma non mi farò ingannare. Il mio cuore sbraita come un gladiatore, perchè mi sento come una mosca in una bottiglia. I passi sono vicini, ma non sento alcuna volontà farsi largo in me; al contrario, come se il mio sistema nervoso si fosse spento, mi accuccio in maniera pietosa.
Un secondo respiro sento oltre al mio. Mi concentro sul pavimento. L'essere s'inginocchia. La sua voce maschile m'interroga con ansia. Non so con quale coraggio alzo lo sguardo ed intercedo quello di mio fratello. «Sono io», mi dice, di nuovo. Il primo raggio d'un sole nascente si riflette sulle sue spalle.
«Dove sono?» gli chiedo.
«Pensa a calmarti. Non sei solo.»
«Sono disgustoso. Sono stato un peso per voi.»
«Non dire scemenze. Non voglio che pensi questo. Mi fa star male.»
Un calore intollerabile e più asfissiante di quello percepito nel treno mi ruba ogni capacità di differenziare la realtà e la fantasia, mi strappa ogni ricordo e senso, a malapena odo mio fratello rassicurarmi di come sarebbe andato tutto bene.

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