Sono steso sul letto, come un blocco di marmo. Dopo qualche minuto, il respiro mi si regola ed i colori del soggiorno si vivificano. La lampada è una macchia luminosa come un miraggio. Muovo gli occhi e sento le palpebre pesanti come fatte di piombo e mi gira la testa come fossi stato colpito da un gancio.
Mio fratello mi tiene a bada coi suoi occhi. Sorride in modo affabile, contento di vedermi. «Buongiorno, principessa.»
Assottiglio gli occhi, ancora incitrullito dal sonno. «Non fissarmi. Mi fa sentire a disagio.»
«Oh, scusa.» Alza le mani.
Sospiro. «Quanto ho dormito?»
«Non esiste il tempo qui.»
Mi copro la faccia col braccio.
«Fai bene a nasconderti», fa mio fratello. «Hai una brutta cera. In tutta sincerità, fai un po' schifo.»
Una pausa, poi gli chiedo: «Sono morto?»
«Tra poco», fa lui. Si appoggia sul davanzale della finestra, le braccia incrociate. Guarda per un momento il soffitto, poi alza le sopracciglia e dice: «Tu stai morendo e non hai ancora molto tempo, ad essere onesto. Volevi un dio; il posto a cui siamo più legati è la cosa più vicina a Dio.»
Non sono sorpreso.
Mio fratello fa un sorriso di sbieco. Prende un pacchetto di sigarette dalla tasca, ne tira fuori una con i denti. «Vuoi fumare?»
«Tu fumi?»
Lui ignora la domanda; mi avvicina il pacchetto e tiro fuori una sigaretta. Poggio la sigaretta sulle labbra; mio fratello si accende la sua, poi procede con la mia.
Dopo una pausa, mi chiede: «Ti è mai mancato papà?»
Ci penso su. Alla fine, decido di dire la verità. «No. Non può mancarmi uno sconosciuto.»
«E io? Io ti mancherò?»
Mi sento il petto stringere e mi brucia la gola. Mi è passata la voglia di fumare. Perché dovevi chiedermi questa cosa in maniera così innocente?
Un silenzio imbarazzante cala su di noi.
«Usciamo un po', che dici?» mi fa quando vede che non rispondo, ammazzando la sua sigaretta nel posacenere.
Camminiamo a fondo per la città, in questo quartiere dalle strade sbilenche e con l'immondizia lasciata a marcire ovunque, parlando del più e del meno. Le case che ci circondano sono danneggiate e logorate dal tempo, sembrano supplicare pietà, si interrogano sul motivo per il quale non sono state ancora rase al suolo.
Arriviamo davanti l'entrata di un parchetto. Faccio qualche passo in avanti, ma notando come mio fratello non si sia mosso, mi giro.
Il vento tira, fa alzare la neve e scompiglia i nostri capelli.
«Dobbiamo salutarci qui», fa lui, gentile.
«Sei arrabbiato con me?» gli chiedo.
«No...» mormora, dolcemente, sorridendo, ma le labbra gli tremano. Il suo respiro si fa più pesante. «Spero solo che tu adesso stia bene.»
Un soffio di neve inizia a nascondergli il viso, le mani, il corpo.
Sono rimasto solo.
Dopotutto, non si può tornare indietro. Sto morendo con la consapevolezza che, ad essere sinceri, io quel mio fratellino l'ho amato davvero.