Capitolo 2

17 0 0
                                    

La prima volta che vidi il migliore amico di Omar, non me ne accorsi nemmeno. Ero passata  a prendere Giada a Marina-Centro per andare al Mojito, un chiringuito a Riccione.
Giada si trovava lì con Omar e alcuni suoi amici. Ricordo di essermi girata velocemente, di averli squadrati, e aver pensato "Chi sono questi sfigati?". Li presi in giro anche con lei, non potendo nemmeno immaginare che a uno di quelli avrei lasciato un pezzettino del mio cuore.
Avevo da poco chiuso con un ragazzo con cui avevo iniziato a sentirmi, che come al solito non mi aveva portato un minimo di rispetto. In realtà in lui non vedevo altro che un altro ragazzo, per determinati comportamenti ed atteggiamenti, del quale avrò tempo di raccontare. Sono piccolezze difficile da spiegare a chi non ha una sensibilità profonda.
Nonostante qualche piccola delusione avevo iniziato a credere di stare guarendo dalle cicatrici del passato. Avevo ricominciato a ridere, ad uscire, ma soprattutto a vivere. Dalla morte di mio zio avvenuta meno di un anno e mezzo prima, avevo attraverso un periodo buio senza nemmeno rendermene conto. Aveva già iniziato a star male durante l'estate ma come cuoco, dell'hotel di famiglia, era costretto a continuare a lavorare. Si era recato qualche volta dal medico di base, ma lui, nonostante gli apparenti sintomi di un tumore, non vedeva alcun problema, nacque così il mio odio per i medici di base.
Quando finalmente decise di recarsi in ospedale era ormai troppo tardi e in meno di 20 giorni, volò in cielo. A causa del Covid non  ci fu concesso nemmeno di entrare in ospedale, non ricordo nemmeno l'ultima volta che gli parlai.
La notte che morì, ero sveglia, stesa nel letto continuando a muovermi da una parte all'altra. Avevo una sensazione di vuoto nello stomaco che alla fine si rilevò profetica. Sentii il telefono squillare, era piena notte, e capii subito. I miei genitori corsero così in ospedale senza svegliarmi. Aspettarono la mattina seguente per comunicarmi la notizia , senza essere a conoscenza che in realtà sapevo già tutto. Fu mia madre a dirmelo e anche se stavo morendo dentro non versai nessuna lacrima perché volevo essere forte per lei. Mi disse che mio zio era ormai diventato irriconoscibile, non pesava più 30 kg, viva, se per così dire, con la paura di addormentarsi con il terrore di non svegliarsi più.
Da quella notte non riuscii più a dormire. Si susseguirono così attacchi di panico ed ansia ogni notte perché appeno chiudevo gli occhi rivivevo ogni volta quell'episodio.
Il giorno del decesso  andai a fare quello che ormai era diventata routine nell'estate dei miei quindici anni, cioè ubriacarmi ogni sera. Da quel giorno la situazione però degenerò. Iniziai a bere anche il pomeriggio in casa da sola , prendendo la cosa sul ridere, per poi ridurmi le sere in uno stato di degrado. Avevo perso il controllo della mia vita pensando che quello fosse il modo giusto di vivere la giovinezza. Almeno l'alcol mi faceva dormire, alla fine dei conti. A distanza di due anni solo  parlare a quella ragazzina per farle capire che il modo giusto di affrontare il dolore non è far finta che vada tutto bene. 
La situazione esacerbò al funerale.
Dalla morte di mio zio, in famiglia nessuno ne aveva più parlato, come se nulla fosse successo, la vita continuava e dovevano mantenere il sorriso  e mostrarci forti. Tutto per soddisfare la aspettative altrui.
Ancora oggi dopo due anni è un argomento mai sfiorato come se fosse un tabù .
Quel giorno mi ricordo,saltai scuola, mi vestii di nero e ci recammo in chiesa. Attraversando la navata avevamo tutti gli occhi puntanti addosso, riversanti pietà.
Ci fissavamo come se da lì a poco ci sarebbe capitato qualcosa di terribile, delle vittime sacrificabili.
Alla fine della navata era posizionata la bara di quercia scura, circondata da fiori bianchi, ed illuminata da una tiepida luce. Ancora oggi questa immagine si ripresenta nei miei sogni o nei momenti più inaspettati  della giornata, lasciandomi sospesa nel vuoto. Inizia così a scrivere delle poesie per descrivere la lotta e il dolore che stavo affrontando dentro di me. Avrei voluto che quello "sfigato" le leggesse.
Ma come si fanno a spiegare certe frasi o parole senza crogiolarsi nel disperazione?

Ferite nel petto
mi corrodono l'anima
o almeno quello che ne rimane,
allungo un mano disperatamente
urlo ma dalla mia bocca,
solo demoni aggrappati alla mia gola ,
per trascinare con se,
anche quelle poche gocce
di colore

ritorno a quell'istante,
le assi di legno
illuminate da una tiepida luce,
mi sento leggera,
sotto di me, il vuoto
Mi chiedo:
"È finita?"
Si
Ma purtroppo non per me

Questa è una delle poesie che scrissi per descrivere quella giornata luminosa ma anche tanto cupa. Incredibile come il paradiso per qualcuno possa diventare l'inferno per qualcun'altro.
Come gli avrei potuto spiegare che avrei preferito morire io al posto di mio zio.
Come potrebbe una persona che non attraversa determinate situazioni comprendere tal gente di stati d'animo? Chi non ha attraversato il lutto non può.
"Che cosa hai?" Spesso mi chiedeva quando mi perdevo a guardare il vuoto o mi ammutolivo improvvisamente.
Se avessi risposto che pensavo a quella bara, come avrebbe mai potuto reagire?
Non poteva capirmi.

Il problemi con l'alcol raggiunsero il culmine poco dopo i miei 16 anni. Bevvi così tanto da finire in ospedale accompagnata dai miei genitori. Mi fecero l'aflebo, mi dissero che per miracolo non ero finita in coma etilico. Mia mamma mi fece addirittura il bagno  ma non ricordo nulla.
Avevo trascorso quell'estate e l'inverno a bere bottiglie di vodka e il vino a casa ma
fino a quel momento così esplicito, i miei genitori non si erano mai accorti di nulla o forse semplicemente ignoravano la situazione.
Durante l'estate oltre ad essere occupati con il lavoro,come sempre, non pensavo ad altro che a mio zio. Così anche quando una mattina vomitai in albergo per l'alcol bevuto la sera precedente,  quello non era altro che un virus.
Oppure l'indifferenza di quando rientravo barcollando o sporca di fango perché caduta da ubriaca. Probabilmente erano troppo stanchi per occuparsi di loro figlia.
Anche loro stavano soffrendo ogni uno in famiglia la stava affrontando in maniera diversa. Alla fine è la prima vita anche per loro sarebbe ingiusto accusarli.
Dopo quella sera,per vari mesi non toccai più alcol ,per poi trovarmi ubriaca marcia ai festini successivi.Piano piano però iniziai a trovare un equilibrio sopratutto grazie all'aiuto di Giada, che a costo di rovinare la nostra amicizia mi fece scegliere tra lei e l'alcol. Non la ringrazierò mai abbastanza per questo.

Dove sei?Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora