Prologo

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C'era una volta, in un Paese lontano lontano...

Tutte le favole iniziano con un "C'era una volta".

La mia ha inizio durante una fresca giornata d'autunno, mentre io e la mia migliore amica eravamo in viaggio su un aereo.

A dirla tutta, ancora faticavo a credere che potesse star accadendo davvero: i miei avevano acconsentito a farmi andare in Giappone per il mio sedicesimo compleanno, realizzando così il mio più grande desiderio. Mi sembrava troppo strano che mamma e babbo avessero cambiato idea all'improvviso, visto quanto si erano mostrati riluttanti dinanzi a quella mia folle proposta – anche se per convincerli avevo dovuto pulire casa per un intero mese e avevo dovuto lavorare part-time tutta l'estate come baby-sitter presso diverse famiglie, in modo tale da poter contribuire al viaggio.

A farne un problema, in realtà, non era stata tanto mia madre: come me, anche lei amava viaggiare, ed essendo hostess di bordo era abituata ad andare lontano, raggiungendo talvolta persino l'altro capo del mondo. Probabilmente quella mia passione doveva essere sorta proprio dall'ammirazione che fin da bambina provavo nei suoi confronti: nell'arco di un semplice anno innumerevoli volte lei aveva la possibilità di ammirare la vastità del mondo, facendone realmente parte. Atterrava su suolo straniero, diventando abitante di terre sconosciute, anche se per poco, lasciandosi indietro la propria identità. Lei era figlia della Terra, in tutti i sensi. In qualità di nipote della Terra desideravo seguire le sue orme, sperando di riuscire in qualche modo a riempirle con i miei minuscoli piedi, compiendo piccoli passi alla volta.

Pertanto il maggiore oppositore all'idea era stato mio padre: con il suo solito tono burbero si era lamentato di quanto potesse essere una pazzia, far intraprendere un volo lungo tutte quelle ore a una ragazzina ancora quindicenne. Quasi mi avesse tolto dieci anni, rendendomi una bambina incapace di cavarsela da sola.

Fortunatamente avevo avuto la genialata di includere in quel regalo anche la mia migliore amica, Dany, mille volte più responsabile e matura della sottoscritta. Dire che mio padre la adorava era un eufemismo. Solo grazie alla sua presenza si era convinto che per quei quindici giorni lontane da casa saremmo sopravvissute e, così, era finalmente riuscito a lasciarci andare – dopo non poche raccomandazioni, protratte fino all'aeroporto, tanto da farmi venire un mal di testa atroce per quando eravamo partite. Inoltre, grazie agli agganci dell'altolocata famiglia di Dany eravamo riuscite a farci firmare un permesso speciale dal preside, convincendolo che saremmo andate lì a studiare, affinché le assenze venissero automaticamente giustificate e non facessero media alla fine dell'anno. Era solo dopo essersi accertato di ciò che mio padre aveva finalmente ceduto, perché "lo studio viene prima di tutto". Certamente era importante, ma era anche vero che la vita era una sola e andava vissuta appieno – perlomeno questa era la filosofia che mi era stata trasmessa da mia madre.

Mentre eravamo alti nel cielo e nuotavamo tra nuvole che andavano imbiancandosi rilassai la mente, rievocando le lacrime che al nostro congedo avevano pungolato i loro occhi. Era bizzarro da parte loro reagire in quel modo esagerato, essendo abbastanza abituati a vedermi partire. Ma in effetti, era la prima volta che mi assentavo durante un mio compleanno – il sedicesimo perlopiù, quello che i miei nonni non vedevano l'ora di celebrare (una delle ragioni per cui avevo preferito la fuga, anche se essa mi aveva condotta in un altro continente). Così come era la prima volta che mi spingevo tanto lontano: fino a quel giorno le mie mete erano state l'Inghilterra, la Svizzera, l'Austria e la Germania. Erano preoccupati, si riusciva a vedere lontano un miglio, ma non era necessario: non dovevano dimenticare che si trattava di soltanto due settimane, sarebbero trascorse in fretta (purtroppo).

Guardai fuori dal finestrino dell'aereo, notando che stavamo per atterrare. Mi si illuminarono gli occhi quando uscimmo dalla coltre di nuvole e intravidi per la prima volta il territorio giapponese. Era un'antitesi paesaggistica: colossali grattacieli grigi posti in irregolari macchie di verde e serpentini sentieri d'azzurro, che strisciavano fino alla baia, dissolvendosi in essa. Che meraviglia.

Dany continuava a ronfare accanto a me, perdendosi questo spettacolo inedito, per cui la scrollai vigorosamente.

«Svegliati Dany, siamo quasi arrivate.»

Lei mugugnò qualcosa di inintelligibile e si stropicciò gli occhi, prima di sbadigliare rumorosamente, lamentandosi.

Le concessi il suo tempo per riprendersi, restando col naso spiaccicato contro il vetro, e quando finalmente atterrammo – dopo quindici ore di viaggio, contando anche uno scalo a Francoforte – erano le 09:27 del 31 ottobre, domenica.

Se fossimo rimaste a Manciano, quella sera avremmo organizzato una festicciola per Halloween con i nostri amici. Saremmo rimasti tra pochi intimi, avremmo visto film horror ingozzandoci di schifezze mostruose, e poi, col pretesto di andare casa per casa a fare "Dolcetto o scherzetto", avremmo fatto una prova di coraggio al cimitero. Come tutti gli anni.

Solitamente Halloween era la mia festività preferita, quella in cui mi divertivo di più a stare in compagnia, quella in cui mi sentivo maggiormente me stessa, ma per quell'anno non mi dispiaceva perdermela. No, non mi dispiaceva, perché avevo un sogno ancora più grande da realizzare.

Sorrisi a trentadue denti e mandai un sms a mia madre per informarla del nostro arrivo, consapevole che lei stesse ancora dormendo. Aggiunsi di dare un morso (quello che per chiunque altro sarebbe stato un bacio) a Andy, mio fratello, e di salutare – e rassicurare – mio padre, prima di scendere dall'aereo e affrettarci a ritirare i bagagli.

Fortunatamente arrivarono a destinazione insieme a noi e riuscimmo a trovarli subito, anche se considerando la grandezza della valigia fucsia di Dany dovemmo farci aiutare da una coppia adulta per portarla sul suolo dal nastro trasportatore. Ancora non mi capacitavo di come facesse lei col suo fisico minuto a sostenerne il peso senza caderci sotto.

Ringraziammo in fretta i nostri aiutanti e uscimmo dall'aeroporto, avviandoci verso i taxi. Dany salì per prima, anticipandomi, mentre io restai per poco indietro. Mi voltai nel sentire il rumore tanto familiare di un aereo che decollava e lo seguii con lo sguardo finché non sparì tra sottili nubi nivee. Non potei fare a meno di pensare che, solitamente, mi sarei chiesta dove fosse diretto; quel giorno, invece, non mi importava.

Voltai quindi le spalle all'aeroporto e mi dedicai all'autista, per indicargli la nostra meta. Doveva condurci alla Tokyo Tower, visto che lì avevamo appuntamento con Ichigo, la ragazza cui dovevo gran parte delle mie conoscenze linguistiche e la cui famiglia ci avrebbe ospitate per quel breve periodo.

L'avevo conosciuta per caso sul web qualche annetto prima, ed essendo lei molto socievole ed estroversa eravamo riuscite a stringere subito amicizia. All'inizio parlavamo in inglese, perché stavo ancora studiando – lezioni private (tra cui alcune con mia madre) – il giapponese. D'altronde, fin da quando ero bambina il mio sogno era sempre stato quello di andare in Giappone, anche se avrei preferito farlo durante il periodo dello Hanami. Ma non era mica colpa mia se ero nata a novembre! E poi era l'unica offerta low cost che eravamo riuscite a trovare, quindi avevamo ritenuto saggio approfittarne finché ci era possibile.

Parlando di Ichigo, sin dal momento in cui avevamo fatto conoscenza aveva attirato la mia attenzione, visto che sia col suo nome che nei lineamenti del volto mi ricordava le fragole; ciò era marcato dai suoi capelli castani, che mostravano dei riflessi rosati se colpiti dalla luce del sole. Il suo taglio era anche scalato, gonfiandosi attorno al suo viso, e si concludeva con una punta al centro delle scapole. Perlomeno, così erano l'ultima volta in cui l'avevo vista. I suoi occhi, invece, erano di un verde talmente cupo da spingermi a credere che indossasse delle lenti a contatto o avesse usato qualche effetto o filtro, la prima volta in cui si era mostrata.

Ovviamente, fino a quel momento i nostri "incontri" erano avvenuti solo ed esclusivamente tramite video o fotografia, ma dopo avermi assicurato che fossero in tutto e per tutto naturali mi erano sorti dei dubbi riguardo le sue origini. Insomma, si diceva che solo il due percento della popolazione mondiale avesse iridi verdi; possibile che le ritrovassi proprio tra i giapponesi, celebri per i loro scuri colori?

Forse non era strano quanto credevo, ma anche se fosse stato così... non vedevo l'ora di risolvere quel mistero!





NdA: 

Siccome nel testo potrete trovare delle parole giapponesi, ve le traduco qui.

- Hanami: letteralmente significa "guardare i fiori"; è la tradizionale usanza primaverile che consiste nel godere della bellezza della fioritura dei ciliegi.

Kokoro no Ongaku- La Musica del CuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora