La larva umana

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Un Professore 1x05

Simone


È l'alba. Il parco dell'Appia Antica è avvolto dalla nebbia e sembra un paesaggio onirico, non si sentono neanche più i rumori. Solo il motore che spinge a fatica su questi viottoli sterrati, e il canto di qualche uccellino.

Guido la Vespa con una mano sola, il vialetto di casa profuma di erba e di pini, e finalmente mi sento al sicuro.

Quando arrivo davanti al porticato, l'odore di casa e la verità delle cose che ho sotto gli occhi ogni giorno mi tirano la pelle e mi riportano alla realtà. Ma forse se tengo ancora un po' i piedi sollevati da terra, la mia bolla non scoppia.

Spengo svogliatamente il motore, metto la Vespa sul cavalletto e mi butto giù, a fatica, dalla sella.
Slaccio il casco con una mano, mentre mi guardo l'altra. Adesso sì, mi fa male.

E un attimo dopo, tenendo gli occhi aperti a fatica, apro la porta di casa.

Papà.
Con un occhio aperto e uno ancora chiuso, la prima immagine che vedo è papà. È dello stesso colore delle pareti, e tiene le mani sui fianchi, il che significa solo una cosa: è nel panico.

"Simone, però, dai!" invece, è la prima cosa che sento. E la voce non è la sua, lui non parla, è come nella neve. È nonna a dirlo, la sua voce antica e preoccupata, che cerca di mettere pace, di evitare scontri. "Potevi farla una telefonata, no?" aggiunge angosciata, mentre richiudo la porta. O almeno ci provo. Che anche solo stare in piedi è una prova di abilità stamattina, e la testa mi gira come se fossi sul tagadà. "Io e tuo pade... Oh, ci siamo spaventati, sai?"

Mi dispiace, nonna.
Ma non è più importante adesso.
Adesso sento i rumori ovattati, la tua voce lontana.
Ho lo stomaco sottosopra, mi viene da ridere senza un motivo e la tua preoccupazione non mi sfiora.

"Ecco. Guarda le condizioni... le condizioni d-" commenta papà indicandomi.
Non gli vengono neanche le parole.
Devo essere proprio ridicolo.
Lo saluto con un cenno della mano e via, come fosse un vecchio amico.
O un generale di brigata.

"Nonna stavo... stavo a una festa..." borbotto con voce impastata, cercando di mettere in fila due parole di senso logico. Ma in quel momento il casco mi cade, sbam, è un rumore che mi entra nelle orecchie, e che mi perfora i timpani.
"Stavi...?" ripete papà. E io lo so che gli viene da ridere quanto me. Perché lui lo sa dov'ero, ero alla festa di Chicca. E lo sa pure nonna. E allora perché me lo richiede? Mi prende forse in giro?
"Guarda! Guarda le condizioni!" commenta infatti quando, chinandomi per raccogliere il casco, perdo l'equilibrio e vado giù. Dritto a terra, sì, come un sacco di patate.

"Ma- io dico... tu... hai la capacità... ti rendi conto di quello che hai fatto? Tu- tu sei andato in giro in Vespa in queste condizioni, di notte...? Ma non-" mi vomita addosso mentre sono giù, incapace di rialzarmi, abbracciato al mio casco e un tutt'uno col pavimento, dove mi inchioda la forza di gravità.
"Vabbè lascia stare" commenta nonna, e la sua voce calma si perde, sovrastata dalla sua, così agitata. Non la sente, papà. E continua a parlare, sembra un treno in corsa.

"Guarda, chiamavi me! Chiamavi nonna! Ti venivo a prendere!" dice. "È pericoloso! Ma non lo capisci questo?" muovendo freneticamente le mani, chinato su di me.
Ma che dici, papà? Roma era tutta mia stanotte. Vuota e grande, grandissima. Anzi, piccola. Più piccola che mai, senza nessuno.

"Ma quale pericoloso? Non c'è nessuno a Roma adesso" biascico, incapace di articolare le parole.

"Non ho capito cosa- cosa hai detto"
"Non c'è nessuno a Roma adesso" ripeto più lentamente.

"Sì vabbè" taglia corto lui, quindi si rivolge a nonna con ritmo incalzante: "Mamma, mi fai un favore? Prepara un litro di caffè. Grazie"
"Sì sì, assolutamente" obbedisce lei, correndo in cucina.

E a quel punto papà si inginocchia vicino a me, e mi dice in faccia: "Allora, tu adesso... ti bevi un litro di caffè... così vomiti tutto... e poi vai a scuola"
Scandisce bene le parole, papà. Come fa sempre quando spiega, quand'è arrabbiato, o quando il panico gli sega le gambe.

Ma io stamattina non ci voglio andare a scuola, papà.
Andarci mi ricorderebbe il motivo per cui sto così.
E ho bevuto tutta la notte solo per dimenticarlo.
"No, voglio andare a letto" biascico allora, la guancia schiacciata contro il pavimento freddo e nella mente l'immagine di me bambino, di certi giorni di pioggia, e degli occhi pieni di lacrime e di speranza con cui cercavo di convincere mamma a farmi dormire un altro po', ché se per un giorno fossi rimasto a casa non sarebbe successo nulla.

Ma adesso mamma non c'è. E al posto suo c'è papà che ripete: "No no no, tu vomiti tutto e vai a scuola. O preferisci che ti metta due dita in gola?!"

E solo l'immagine mi fa sentire male.

"Caffè" soffio allora, arrendendomi.
E papà sembra contento. "Ecco" dice rialzandosi.

"Ma si può avere il cornetto?" urlo allora io, per farmi sentire anche da nonna.
E come risposta ricevo un "Ma vaffanculo" da parte di papà, che subito dopo mi indica con la mano aperta e commenta: "Eh, la larva umana... la larva umana" prima di lasciare il salotto.

E devo dire che un po' mi piace, l'idea di essere una larva. Di essere tornato bambino, almeno per una notte, almeno per qualche ora. Di aver messo da parte le difese e aver dimenticato tutto. Solo così le ferite potevano smettere di bruciare, solo così potevo trovare un po' di tregua.
Adesso farò come vuole papà: mi berrò 'sto caffè amaro e vomiterò tutto, e poi andrò a scuola. Anche se non ho dormito neanche un'ora e ho la testa che mi scoppia. Però intanto, il tempo di un'alba umida, il dolore l'ho ingannato. E con lui la forza di gravità, il senso del dovere, e quella dannata mania di avere sempre tutto sotto controllo.

Indelebile || Simone e ManuelDove le storie prendono vita. Scoprilo ora