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Nacqui nobile, figlia di nobili. Mi avvolsero in fasce candide e pulite, e come accade per tutti i bambini aristocratici, non fu mia madre a tenermi per prima, bensì una levatrice, mentre a mia madre fu dato un cuscino. Mi chiamarono Saffo come in previsione del mio futuro. "Sapiente", "che sa parlare", o forse fui proprio io a dare tale significato al mio nome.
Mio padre proveniva dalle campagne troiane, ed il suo nome richiamava il fiume più importante di quella zona: lo Scamandro. Il suo nome era Scamandrio, e seppur proveniente dal nord, riuscì a portare la sua fama a Lesbo. Mia madre, d'altro canto, non era di meno. Originaria di Mitilene, la sua bellezza attirò l'attenzione di mio padre quando erano ancora giovani. Non ne ho idea di come si incontrarono: le donne aristocratiche finiscono di essere madri al parto, e nessuna delle due ha mai preso l'iniziativa di chiedere o di raccontare. La guardavo spesso acconciarsi i capelli con diademi e nastrini, gemme e pietre preziose, o sistemarsi i boccoli che creava con curiose spirali in metallo, dure e scintillanti. Si guardava allo specchio e sorrideva, si colorava le labbra e le sue dita erano rosse di polvere porporina. Era bella e sapeva di esserlo.
Pareva una dea, di grande bellezza. Non fu strano il fatto che si fosse maritata tanto giovane. Tra i suoi pretendenti scelse mio padre, un commerciante qualunque, ricco nonostante l'inesperienza, probabilmente grazie alle spiccate fortune della sua famiglia. Bello, dall'eredità massiccia e suo coetaneo, mia madre Cleide fu felice di accoglierlo fra le sue braccia in matrimonio.
«Sei un viaggiatore, non è così? Commerci per mare...» investigò mia madre, quando era ancora vergine. Amava gli intrighi, e ancor di più farsi intrigante, giocare coi suoi pretendenti, attirarli a sé quanto rifiutarli.
«È così.» rispose mio padre spavaldo.
«Allora ne possiederai, di fortune, non è così?»
«È così.»
«Desideri prendermi come tua sposa?»
«Sì.» fu felice della risposta.
«C'è una condizione.» disse con un sorriso da gatto, un sorriso furbo, probabilmente, uno dei suoi. «Sarò l'unica donna della casa. Al di fuori della soglia, potrai seminare quanto vorrai, ma i nomi delle tue concubine e dei loro figli bastardi non toccheranno mai i muri di casa nostra.»
E così fu. Dalla loro unione nacque prima mio fratello Larico, tutto nostro padre, dai capelli scuri e le palpebre pesanti, ombreggiati da corte ciglia, gli occhi neri come ossidiana. I suoi capelli erano simili al colore della cenere, e la pelle al colore della sabbia bagnata. Alla nascita, fu benedetto per il suo pianto silenzioso e il parto facile.
La seconda nascita fu quella di un bambino già morto durante il travaglio. Fu seppellito, e i miei genitori sembrarono siglare un accordo in cui si concordarono sul non parlare di quell'aborto. Le lenzuola furono ripulite e dopo una settimana mia madre fu di nuovo in piedi.
Poi nacqui io, la prima femmina. Capii subito come andavano le cose: mio fratello sputava veleno dalla bocca come un serpente nel collo della sua preda. Le prime frecciate erano nascoste, timide, ma ogni giorno sempre più appuntite, acuminate, dolorose.
Non potevo lamentarmi, però. Lui era il primogenito, colui su cui sarebbero ricadute tutte le aspettative, e anche se ci avessi provato, non sarei riuscita a macchiare il suo orgoglio o il suo onore, perché il resto della famiglia li avrebbero ripuliti all'istante. Io ero la sorella minore, il terzo parto di mia madre, e alla nascita fui benedetta poiché avrei portato un buon matrimonio. Le mie zie mi guardavano con sospetto, essendo nata direttamente dopo un aborto. Brutto presagio. Si rivelerà storpia. Ma mio padre non le ascoltava. Una figlia femmina significava eredi sicuri.
«Si sposerà bene.» commentò mio padre.
«In che modo?» continuò mia madre.
«È nobile. Gli uomini non troveranno meglio di così.»
Era vero. Se fossi cresciuta brutta o antipatica, per mio marito ci sarebbero state le schiave o le prostitute ed i giovani servi, mentre io sarei rimasta l'incubatrice dei figli che avrebbero ereditato le sue ricchezze. Ne sarebbe bastato uno, o per andare sul sicuro, un paio, sperando per dei maschi.
Venni cresciuta con gli stessi insegnamenti che ricevette mio fratello, dai migliori maestri che si potevano trovare, e imparai a scrivere, leggere e comporre musica. Mi fu insegnato il Καλαματιανός e a pregare le divinità come a cantare ed essere leggera come una piuma.
Ma quando ne avevo l'occasione, lanciavo e rilanciavo i dadi di mio fratello finché non facevano un sei e correvo per il mio palazzo di notte con una torcia accesa, divertendomi con giochi di luci ed ombre, spaventandomi da sola e poi scappando via, con lo stomaco aggrovigliato dal terrore al pensiero di farmi scoprire.
I miei pomeriggi scorrevano silenziosi, e le mie lezioni erano l'unica cosa a distrarmi dalla mia solitudine. Mio fratello aveva le sue compagnie, mio padre i suoi commerci e mia madre i suoi trucchi e le sue amiche. Io avevo me stessa e la mia immaginazione.
Il mio unico compagno di giochi fu Alceo. Eravamo coetanei, lui come me un nobile figlio di nobili, e ciò era già abbastanza per renderci amici, o forse, nemici. I miei genitori non incoraggiarono tale amicizia, ma mi lasciarono fare comunque. Era un periodo di crisi per la nostra aristocrazia, e nonostante la giovinezza di Alceo, egli fu da subito interessato ad essa.
Prendemmo confidenza dopo il nostro primo incontro, lui ultimo dei suoi fratelli, io unica sorella.
«Conosci Melancro?» mi chiedeva, io scuotevo il capo.
«Le donne non partecipano alla vita politica.» Lui rideva. «Lascia che ti spieghi...»
Insieme guardavamo le stelle e ripetevamo i nomi delle costellazioni che ci erano stati insegnati, ci arrampicavamo sugli alberi e lui intagliava statuine di legno per il mio compleanno. «Sei tu.» precisava.
«Sono io.» mangiavamo bacche rosse sporcandoci i vestiti, ma a nessuno dei due importava, perché tanto ne potevamo avere quanti ne volevamo. Correvamo per la campagna e quando nessuno poteva vederci giocavamo a palla o ci dirigevamo sulla spiaggia a tirare i sassi sull'acqua, ridendo quando saltellavano su di essa. Plic. Plic. Plic. Per il suo compleanno, raccoglievo i fiori migliori delle mie campagne e glieli porgevo il giorno stesso. «Sono belli.» diceva. Era il suo modo di dire grazie. Io sorridevo. Era il mio modo di amare.
Nacque il mio terzo fratello, Carasso. Mia madre non lo tenne in braccio nemmeno una volta; lo feci io al posto suo. Lo abbracciai per la prima volta direttamente dopo che la levatrice lo lavò e asciugò. Il suo odore non era come quello di mia madre, che non lo aveva nemmeno toccato. Era morbido come cotone, e profumava di legna ardente. Questa volta, la sua istruzione fu lasciata a me. Certo, ci furono anche i maestri, ma fui io ad educarlo alla gentilezza e alla benevolenza. Sia io che Alceo divenimmo amanti della natura e passavamo giorni a discuterne, ma più lui cresceva, più il suo naso si faceva curvo come quello di un'aquila, la sua barba folta e dura da tenere sotto controllo, ed il suo impeto politico sempre più forte ed incontrollabile. Le lotte aristocratiche non si fermavano, perciò mi vidi scivolare via il mio primo, unico amico dalle mani.
Così, Carasso prese il suo posto. Gli raccontavo le mie storie, che inventavo la notte quando non riuscivo a dormire per farmi compagnia, e quelle che mi erano state raccontate dai maestri e da Alceo, mentre quello abbracciava il mio collo e mordeva i miei capelli o mi assaggiava le dita. La follia di Eracle, l'orgoglio di Meleagro come quello di Achille, le avventure di Odisseo e la punizione di Prometeo furono alcune storie che arrivarono alle sue orecchie. Gli insegnai a camminare mentre mio fratello maggiore cercava di intralciarlo con un bastone. Presto notai che sembrava essere immune ai malanni, e ne fui più che felice. Poi vidi che imparava molto più in fretta di me e Larico, e fui ancora più felice. Fu benedetto anche lui come mio fratello, ma come successe a me, Larico lo prese di mira come fratello più piccolo.
Sembra un fuscello. È piccolo da sembrare storpio. È brutto e pure stupido. Non ce la farà a sopravvivere tanto più di quello prima. Io zittivo. Avremmo pianto insieme più tardi. Gli avrei insegnato anche la resilienza.
Lui era, infatti, più piccolo del normale: era minuto, dalla pelle chiara e sottile, le ciglia più lunghe delle mie e gli occhi dolci e grandi come quelli di un cerbiatto. I suoi capelli erano folti e morbidi come quelli di una donna. A differenza di Larico, Carasso era semplicemente Cleide. I capelli castani, gli occhi scuri e grandi ed il corpo slanciato e piccino erano tutte sue caratteristiche. Io ero un miscuglio di mia madre e mio padre. La mia pelle era abbronzata, e scintillava dorata come sabbia bollente sotto il sole, anche il naso dritto era quello di mio padre, assieme agli occhi pesanti e neri e i capelli scuri. Il corpo rimaneva di mia madre.
Carasso fu l'ultimo a essere benedetto dalla mano di Scamandrio, poiché dopo mio padre morì.
Qualche tempo prima del crollo totale dell'aristocrazia, io ed Alceo ci incontrammo per un'ultima volta. Eravamo giovani, appena adolescenti. Era una notte come le altre, e ci ritrovammo come sempre a contemplare la luna, ad osservare i formicai o a collegare le stelle e cercare forme familiari tra le nuvole. Discutemmo del futuro, di che ruolo mi sarebbe piaciuto interpretare nella mia famiglia, e lui rispondeva con insulti o lodi a uomini che non conoscevo. I nomi erano gli stessi. Melancro, Mirsilo, Pittaco.
Rimanemmo per un po' in silenzio. Non accadeva di rado, non eravamo grandi conversatori, ma amavamo la compagnia l'uno dell'altra forse proprio per questo. Eravamo vicini, le nostre spalle si toccavano, il buio della notte interrotto solo dalle luci della città e le torce del porto. Potevo sentire il suo sguardo scuro su di me, il suo respiro caldo che infondeva sicurezza, il profumo che utilizzava sotto le braccia e sul collo - mirra e timo.
Pensai che mi era tanto caro, e che gli volevo un bene del cuore. Fu mio fratello prima di Carasso e molto più di Larico, e io fui la sua unica sorella e amica più stretta. Mi ricordai i pasti insieme, le corse e le giornate passate a parlare.
Ora eravamo adolescenti, lui cominciava a tagliarsi la barba e io ebbi la prima luna. Stavo diventanto anch'io una donna: le curve mi si accentuarono in modo considerevole e velocemente, sorprendendo anche mia madre e le mie zie, e le mie fattezze si avvicinavano sempre più a quelle di una donna, come quelle di Alceo si allontanavano dalla fanciullezza e diventavano sempre più forti e mascoline.
All'improvviso, i nostri volti si unirono. L'ultima cosa che vidi fu lui avvicinarmisi velocemente, quasi furtivo, come un cane che si lancia su un gatto. Le mie labbra si schiusero come di impulso, per la sorpresa, quando stavo per domandargli cosa volesse fare. Non ce ne fu bisogno. Mi ritrassi disgustata e scioccata allo stesso tempo, senza esitare. Agli uomini non va dato il tempo di agire. mi aveva detto mia madre. La mia mente era una corsa ippica di pensieri, un via vai di idee e considerazioni sul da farsi. Domande, risposte, ipotesi, realizzazione. Lo allontanai, e lui capì subito. Non era stupido, e non era barbaro.
«Scusami.» disse. «Non avrei dovuto.» Solo in quel momento presi a vederlo come un uomo. Che stupida. pensai, Lui sa già da tempo che sono una donna.
Cercando di riempire il silenzio imbarazzante che si stava creando, aggiunse: «Non preoccuparti. Non dirò a nessuno. Siamo amici. Possiamo continuare ad esserlo.» io sorrisi, ancora a disagio, la sua saliva bagnava ancora le mie labbra e non avevo voglia di ingoiarne ancora parlando. Senza nemmeno accorgermene, mi ero alzata. «Non preoccuparti.» mormorai, il viso ancora contratto dal disgusto e la sorpresa, come se la mia espressione si fosse bloccata. Gli porsi la mano nonostante tutto, e mentre non guardava, mi pulii la bocca con la tunica. Ci alzammo.
«Ma dopo la morte di tuo padre, non ti farebbe comodo prendere marito?» chiese.
Io ero solo imbarazzata. «Prenderò marito a tempo debito.» risposi semplicemente.
Calò il silenzio, e durante il nostro ritorno a casa, fu lui a parlare ancora. «Se hai bisogno di qualcosa, Lo sai che ci sarò.»
Fu al crollo totale dell'aristocrazia che fummo esiliati dall'isola, e mandati in Sicilia. Fu difficile tenermi in contatto con Alceo e seguire le sue avventure politiche, ma mi arrivò notizia che non ci volle tanto perché toccasse anche a lui. E mentre io fui cacciata a Siracusa, il mio migliore amico si ritirò a Pirra, sempre a Lesbo, e si disse contento di poter ancora respirare l'aria di casa, a differenza mia.
La mia vita non cambiò di molto, poiché le mansioni erano sempre le stesse: tessere, imparare a fare la moglie, truccarsi, pregare, giocare con gli aquiloni. La mia vita divenne ripetitiva nell'attesa di messaggi da parte di Alceo, ma fui felice di avere Carasso al mio fianco.
Intanto, anche i miei fratelli crescevano e mia madre si faceva vecchia sempre più. Larico divenne coppiere al pritaneo di Mitilene nella nostra madrepatria - un onore riservato solo ai figli delle migliori e più importanti famiglie; mentre Carasso prese una strada ben diversa: divenne un viaggiatore, un commerciante, come nostro padre. Viaggiava dalle coste dell'Arabia ai confini del Mediterraneo e al ritorno mi portava pietre preziose, arazzi dai colori intensi ed esotici e tessuti pregiati, che avrebbero fatto ingelosire le mie cugine e le mie zie. Ciò gli portò onore.
Alceo tornò a Mitilene molto prima di me, e io lo raggiunsi in seguito. Si era fatto più alto, e io ero cresciuta solo di poco. Tornai nella mia terra natia che avevo già terminato la fase dell'adolescenza, mia madre mi ritenne grande abbastanza per prendere marito.
Perciò, in occasione del mio ritorno dopo dieci anni di lontananza, fu celebrato il mio matrimonio.
Mi sposai con un uomo degno di me, come disse mia madre, e delle mie ricchezze. O meglio, le ricchezze di mio padre. Carasso fu assente alle nostre nozze, ma mi mandò calorosi auguri ed un baule di veli colorati e meravigliose preziosità provenienti dall'Oriente. Per la mia cara sorella. Sorrisi.
Il mio matrimonio fu simile a quello di mia madre. Io e mio marito eravamo distanti, e ci scambiavamo poche parole di giorno mentre di notte ci davamo le spalle.
Fu a causa della noia e della novità del matrimonio che fondai il Tiaso. Esso si trovava nelle mie campagne, poco lontano dal mare, in un palazzo simile a quello che avevo avuto da bambina, in pietra bianca e marmo, abbastanza spazioso da ospitare una cinquantina di ragazze. Perché lì, infatti, erano ammesse solo ragazze, più specificamente fanciulle nubili e aristocratiche che volevano intraprendere un percorso sentimentale verso il talamo. Io sarei stata la loro insegnante. Le avrei istruite alla grazia, al canone e all'armonia per renderle spose perfette.
Non vi era modo di evitare il matrimonio. Era un destino a cui tutte le ragazze avrebbero dovuto puntare. Io stessa mi ero trovata col fiato sul collo quando ero di gran lunga un'adulta non sposata. Le zie mi avrebbero chiamata zitella, e mia madre si sarebbe vergognata di avere una figlia di quell'età ancora non sposata. Così, accettai la proposta di Cercilia e mi ritrovai con un marito al mio fianco. Com'è passato il tempo. Pensavo guardando il soffitto sotto le lenzuola del mio letto nuziale, al buio. Quanti componimenti avevo scritto nel corso di tutti quelli anni? Forse cento. Forse di più. Ricordavo il primo sorriso di Carasso, le prese in giro di Larico, il canticchiare di mia madre, la stonata risata di Alceo. Ricordavo i piedi nudi tra l'erba, le giornate al fiume, le esplorazioni nei boschi.
In breve tempo molte ragazze, alcune nel fiore dell'adolescenza, altre poco più giovani di me, giunsero sulle coste di Lesbo per unirsi al mio Tiaso. Io le salutavo con un sorriso e le facevo portare dalle serve nelle loro stanze. Da tutta la Grecia, fanciulle celibi vennero da me per imparare come essere graziose e affabili sotto la mia guida. Quanta fiducia riponevano in me? Fu anche opera di Alceo e Carasso, che levavano calici e brindavano al mio Tiaso ad ogni pasto.
Fu in quell'occasione che incontrai Anattoria.

𝐈𝐥 𝐂𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐃𝐢 𝐒𝐚𝐟𝐟𝐨 | wlwDove le storie prendono vita. Scoprilo ora