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Fino a prima della gravidanza, avevo dato al mio dolore la forma di un canto, qualcosa di meraviglioso, di bello e piacevole. L'amore di mia madre, la morte di mio padre, la ribellione di mio fratello, la solitudine che mi aveva fatto compagnia per tutta la mia vita. Tutto era una poesia, una sofferenza dolce e silenziosa, che gli uomini avrebbero paragonato al bubolare di un gufo o al mormorare del vento tra le foglie.
Eppure, ora era divenuto tutto più forte, come se mi fossi risvegliata da un lungo sogno. Ogni cosa rappresentava per me un pericolo: i ciottoli lisci e duri oltre la soglia di casa potevano far inciampare mia figlia, aprirle il cranio in un sol colpo. I denti delle vipere che si dileguavano al suono dei miei passi erano diventati daghe pronte a pugnalarla. Gli angoli dei tavoli in legno puntavano dritto agli occhi di Cleide. Guardavo con sospetto i gatti che da sempre sonnecchiavano tra i rami degli alberi fuori alla finestra, come se da un momento all'altro, avrebbero potuto saltarle addosso con gli artigli sguainati ed i denti scoperti. Ogni volta che una serva la teneva in braccio, mi venivano le vertigini. La mia unica figlia. Per qualche motivo, sentivo che non ne avrei avuto altri, di figli. Mi ero legata a lei come i rampicanti si intrecciavano alla pietra del mio palazzo, un legame così forte, come se il cordone non fosse mai stato tagliato. Era diventata, in così poco tempo e senza che me ne accorgessi, la mia ragione di vita. E per chi altro vivevo? Mia madre era morta, così come mio marito e mio padre. Alceo aveva la sua politica, Carasso la sua Rodopi, Larico le sue coppe ed i suoi ragazzi. Ed io? Che mi rimaneva? La mia poesia, Anattoria, Cleide. La notte, le stringevo a me come se il loro respiro avrebbe potuto fermarsi da un momento all'altro.
Come avrebbe potuto sopravvivere ad un mondo tanto crudele, un creatura così fragile quanto Cleide, così piccola e debole, che non riusciva nemmeno ad alzare la testa, a stare seduta? La stringevo al petto, così che udisse il battito del mio cuore. Senti?, le dissi, batte per te. Solo per te.
Solo la notte trovavo il riposo. Il silenzio, il buio e la quiete sembravano darle pace. Durante il giorno, non faceva che urlare, perché aveva fame, sonno, perché non era comoda nei suoi vestiti, perché doveva essere cambiata, perché si trovava scomoda come l'avevo adagiata nella culla. Piangeva per il troppo rumore, perché odiava essere messa giù, tenuta in braccio. Raramente, le nostre menti trovavano pace. Quando prendeva il latte, quando giocava con qualcosa che riusciva a distrarla da quel suo dolore immenso, quando dormiva.
In quei momenti, mi guardavo allo specchio. Ero invecchiata, realizzai. Sotto le vesti, la pelle del mio ventre era flaccida ed increspata come le onde dell'Egeo, non più liscia come una volta. Mi dissi che era stato uno scambio equo. Il mio corpo per quello di mia figlia. Durante quelle sere, con Cleide avvolta tra le sue fasce, Stavo davanti allo specchio - lo stesso che mi aveva vista truccata ed agghindata in mille modi, mille altre volte, e fissavo. Osservavo il viso paffuto di Cleide, quanto fossi grande in confronto. Sentii il battito del mio cuore e mi chiesi se il suo batteva allo stesso modo. Non sarò mai più giovane di così, mi dissi. Non sarò mai più bella quanto lo sono ora, e Cleide non sarà mai più così piccola. La mia bambina sospirò. Il tempo lo sentivo scorrere, sulla pelle, nelle viscere, davanti ai miei occhi. Se solo avessi potuto tenerla tra le braccia per sempre. Cercilia voleva dei figli, pensai, ma tu vivi per me.
Crebbe, ed il tempo scorreva come acqua tra le mie mani: veloce, inafferrabile. Cleide aprì gli occhi, imparò a stare seduta, a sorridere, a giocare, a gattonare. Si quietò. Non potevo far altro che realizzare quanto stessi crescendo anch'io, assieme a lei. Ed insieme a noi, Anattoria, che mi stava accanto, tenendomi la mano. Le osservavo giocare assieme con dadi e bambole, ridere, imparare, mentre io sedevo sul letto o alla mia scrivania in legno di noce.
A

vevo sempre paragonato Anattoria alla luna, silenziosa e fredda, distante. Eppure ora, brillava come il sole sul pavimento della mia stanza, riscaldandomi il cuore. Mangiavamo assieme, ridevamo, passeggiavamo, crescevamo. Realizzai che Anattoria era stata una famiglia per me più di quanto non lo fossero stati mia madre ed i miei fratelli. Ma certo, la mia luminosa Anattoria era stata per me una benedizione mandata direttamente dagli dèi, come non avrei mai potuto immaginare anni prima.
La guardavo, la contemplavo: quale luce! Quale ispirazione, quale musa! Quanti scritto ne ho ricavato da lei, quante parole, senza che nemmeno lo sapesse.
E poi fu in quel momento che la vidi: la nave.

𝐈𝐥 𝐂𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐃𝐢 𝐒𝐚𝐟𝐟𝐨 | wlwDove le storie prendono vita. Scoprilo ora