13 - Self Sabotage

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«Mio padre pensa che non dovrei vedermi con te per ora, perché sei un tipo strano. Sai, per tutta quella faccenda del tuo passato...»

Fu strano, ricevere quella strana frase da parte di una delle persone a cui più tenevo. O almeno, così pensavo... pensavo, credevo, di tenerci. Ma ciò a cui ero più aggrappato era una semplice idea di pace, serenità e felicità che quella data persona poteva darmi. Eppure, sentita quella frase... sparii dalla vita di quella persona, feci in modo di farmi odiare.. perché era meglio che me ne andassi prima io, che essere mandati via dagli altri.

«Sam.»

Alzai lo sguardo verso la donna che avevo davanti, seduta all'altro lato di una scrivania. La donna mi aveva parlato di tutto e niente, mi aveva fatto parlare di tutto e di niente. Nessuno aveva mai preso il tempo o la voglia di farmi parlare delle cose più stupide o dei miei problemi. Fu strano. Ovviamente sapevo che la pagavo per questo, era il suo lavoro. Eppure sentivo da parte sua una sana empatia portata dalla sua naturale voglia di aiutare, piuttosto che dalla brama di soldi. Alcune volte quell'ufficio mi rilassava parecchio, altre mi faceva sentire come in una scatola stretta e pronta a stritolarmi.

Tuttavia mi piaceva stare lì.

La dottoressa Tosca mi guardò a lungo, poi si allungò appena sulla scrivania per riuscire a guardarmi meglio negli occhi. Un sorriso accennato e dispiaciuto, poi si alzò e andò a chiedere alla segretaria due tazze di tè e cambiò infine la sua posizione, venendo a sedersi vicino a me sulla poltroncina.. Io ero ancora seduto sulla mia, con un blocco da disegno sulla gamba intento a scarabocchiare.

«Lo sai che anche tu meriti di essere felice? Magari quella persona di cui stavi parlando non ti voleva allontanare con quella frase, ma piuttosto farti sapere che ti voleva venire incontro nonostante suo padre fosse contrario...»

Mi strinsi nelle spalle, poi alzai lo sguardo verso di lei facendo una piccola smorfia: «Non volevo creare problemi...»

«Non volevi rischiare di provare felicità, che poteva incorrere in una probabile ma anche no, fine di amicizia...»

Strinsi le labbra poi mi portai le ginocchia al petto guardando la dottoressa per un po'. Non era ovviamente la prima volta che succedeva, o che parlavamo di quell'argomento. Ma sentivo di non riuscire a venire a capo di questo mio grande disagio. Feci per dire qualcosa, ma decisi invece di massaggiarmi la fronte per qualche secondo prendendo tempo per pensare a quelle sue parole.

Lei però continuò: «Questo è un altro atto di sabotaggio verso sè stessi, Niam.. Non è la prima volta che affrontiamo questo argomento... Oggi però ti vedo molto più scosso del solito, ciò che ha fatto tua madre è imperdonabile è questo è bene che tu te lo ricordi ogni volta che ti senti un peso, o un disturbo per gli altri.» Mi sistemò una ciocca di capelli via dal viso per farsi guardare, e mi fece anche alzare il mento, come per ricordarmi di essere sempre fiero di chi ero «Non lo sei. Sei un ragazzo che è stato abusato dalla propria madre quando non eri in grado di difenderti. La tua sorellastra non penso volesse farti sentire un peso, anzi credo proprio tutto il contrario. Ti ricordi cosa ti ha detto dopo quelle cose? Mh?»

Alzai appena lo sguardo, e la guardai per un momento riflettendo su cosa la mia sorellastra mi avesse detto. Aggrottai la fronte per un momento. «Che non le fregava di ciò che il padre aveva detto, e che le avrebbe fatto piacere sia a lei che alla madre se io andassi a mangiare a casa loro ogni tanto insieme a mio papà...»

Lei fece un sorriso quando me lo sentì dire. Io, invece, mi portai solo le mani davanti al viso. «L'ho fatto di nuovo...» come sempre, mi ero allontanato alla minima possibilità di provare un po' di felicità, stabilità, calma e, finalmente, una famiglia come si deve. Eppure non mi veniva naturale avvicinarmi. Quando sembrava voler capitare qualcosa di bello, cercavo in tutti i modi di... evitare quella felicità che potevo provare.

Dopo la seduta uscii dalla stanza e lentamente anche dalla palazzina fino a ritrovarmi fuori. La pioggia batteva con violenza contro il terreno, lasciando nell'ambiente uno strano odore di asfalto bagnato, presi un bel respiro, anche se l'odore non era uno dei migliori, e una volta aperto l'ombrello iniziai a camminare sul marciapiede, ignorando i passanti che mi camminavano a fianco. Nella testa le ultime parole della dottoressa mi rimbombavano come tamburi: «Per smettere di auto-sabotarti devi fare il passo contrario di quello che ti ha portato a questo momento.».

Mi fermai di colpo davanti alle strisce pedonali, guardai il semaforo ancora sul verde e poi dietro di me dove c'era un cafè all'angolo della strada. Deglutii una volta la mia saliva e tirai fuori il telefono fissandolo per un po', finché non presi la decisione di fare il numero di mia sorella. La dottoressa Tosca aveva ragione. Dovevo uscire da quel circolo vizioso, togliere la coda dalla bocca del cane. Rimasi con il telefono vicino all'orecchio, riparandomi nel frattempo lontano dalla strada per evitare di essere bagnato da qualche guidatore poco raccomandabile. Uno, due... tre... al quarto squillo, la voce di mia sorella fece capolino dall'altro capo del telefono: «Pronto...? Niam...? Stai bene?! Sei-»

«P-Possiamo vederci per un caffè...? m-magari adesso se non hai da fare...?»

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