Capitolo 6 || La leggenda del colibrì

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I suoi piedi sprofondavano sulla sabbia mentre Simone vagava sulla spiaggia, cercando disperatamente un senso alla confusione che regnava sovrana nella sua testa.

Perché deve essere sempre tutto così complicato?

Perché la sua testa continuava a dirgli di aver fatto una cazzata a lasciar andare Mimmo? Perché continuava a rimproverargli di essere stato irrispettoso nei suoi confronti, di averlo preso in giro?

Perché la sua testa andava sempre e solo contro di lui?

Non c'era una volta che si fosse sentito in pace con sé stesso e le sue decisioni.
Voleva soltanto smettere di essere il suo peggior nemico, voleva smettere di sabotarsi da solo; il problema era che non sapeva nemmeno da dove iniziare.

In cuor suo, sapeva di aver fatto bene a mandare a quel paese quello stronzo del suo ex ragazzo, e si malediceva per essere cascato di nuovo nella sua finzione, per essere stato così ingenuo da credere di poter ricostruire qualcosa che era sempre stato rotto, marcio.

Perché la verità gli si era finalmente palesata davanti agli occhi: Mimmo è una persona cattiva e ricolma d'invidia, che dietro quell'atteggiamento da ragazzo che si crede superiore pure a Dio, nasconde un'anima insicura come poche su questo pianeta.

In cuor suo questo lo sapeva, e sapeva che per iniziare a stare meglio doveva rimuovere dalla sua vita tutto ciò che gli portava negatività: inseriva così il primo di tanti tasselli che componevano il grande mosaico dell'amor proprio, che fino a quel momento era stato qualcosa di sconosciuto per Simone.

Il cuor suo, sapeva di essere ormai nelle mani di un'altra persona, e quella persona era un surfista di vent'anni appassionato di filosofia, dotato di un'incommensurabile capacità di mettersi nei guai.

Il cuor suo, era nelle mani di Manuel.

E forse era ora di iniziare ad ascoltarlo, questo cuore, che era stato trascurato per troppo tempo.

Dopo aver camminato per un bel po' di metri, Simone si fermò nel punto in cui la sabbia iniziava ad essere presente in minor quantità e più bagnata, dove poteva osservare il movimento del mare che senza stancarsi andava avanti e indietro, poi avanti, poi indietro.

Si abbassò e si sedette, cingendo le sue braccia intorno alle gambe che aveva flesso per portare le ginocchia al petto.

Una splendida luna piena illuminava il cielo notturno di Ponce, e le stelle più luminose che Simone avesse mai visto le facevano da contorno.

Rimase in silenzio, la testa china poggiava sulle sue ginocchia e fissava la sabbia sotto di sé.
La vista si fece un po' più appannata quando le lacrime gli riempirono gli occhi e fu allora che tirando sù la testa, volse uno sguardo sconsolato alla luna come se si aspettasse di essere consolato da essa.
La sua luce evidenziava le lacrime che cadevano insistenti sul suo viso.

«Non so più che fare, Ja»

Parlare alla luna era il suo modo per cercare, invano, di raggiungere suo fratello gemello, Jacopo, la cui vita si era spenta alla tenera età di tre anni.
Simone non ricordava niente di lui, anzi per un po' aveva anche dimenticato che fosse mai esistito; ma da quando i suoi genitori gli avevano raccontato tutto la sua vita era cambiata.

Per un primo momento la sensazione di vuoto che aveva provato nel sapere che un tempo era esistito un altro lui, un altro bimbo con cui sarebbe potuto crescere condividendo sogni e paure, gioie e tristezze, lo aveva lacerato dall'interno.
Un buco nel petto che col passare del tempo si era ingigantito sempre di più fino a risucchiarlo, come un buco nero; e Simone si era lasciato inglobare, aveva lasciato che questo dolore avesse la meglio su di lui.

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