CAPITOLO 3 (Parte 1)

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Mia 

La punta fine del pennarello si infila tra i contorni spessi della ghirlanda natalizia stampata sul foglio bianco, riempiendo le foglie di un intenso scintillio di verde. Ricalco qualche venatura interna e il bordo sotto il contorno di una tonalità più scura, imprimendo nell'immagine un accenno di ombra.

Da qualche parte sul tavolo, il manuale di neuropsicologia mi guarda in cagnesco, promettendomi di vendicarsi della mia trascuratezza con una bella bocciatura al prossimo appello.

Vinci facile, gli borbotta una vocina nella mia testa, prima che io mi renda conto che rispondere ad un libro di testo non sia esattamente una prova della mia sanità mentale. A mia discolpa, posso solo dire che la stanchezza gioca brutti scherzi. Sono giorni che non faccio che puntare la sveglia prima dell'alba per recuperare tempo per farmi entrate in testa una quantità improponibile di parole impronunciabili che continuano a sfuggire via un attimo dopo averle lette.

Perciò stasera, dopo l'ennesima compressa inefficace di paracetamolo per scacciare il dolore pressante alle tempie, ho deciso di gettare la spugna.

Il primo impulso è stato quello di scrivere. Dopotutto, le righe ordinate di lettere scure su fogli bianchi sono state il mio modo di buttare fuori pensieri e malumori per anni, perciò è una sorta di tendenza naturale. Che oggi non ho intenzione di assecondare. Né per i prossimi dieci anni, per quanto mi riguarda. Basta scappare da questo mondo lanciandosi in una realtà che non esiste.

È ora di crescere, Mia.

Perciò, ho optato per un lancio sul tappeto del salotto – per amor di precisione, dovrei dire del piccolo ambiente oltre il tavolo della cucina che ci piace chiamare così- in compagnia di un quaderno di disegni natalizi da colorare e del piccolo abete finto che abbiamo decorato con palline e luci colorate recuperate dagli addobbi di troppo delle nostre famiglie.

Mi viene da sorridere. L'appartamento che condivido con Alice da ormai un paio d'anni non è esattamente quella che si dice una casa spaziosa. Conterà al massimo cinquanta metri quadrati, divisi tra uno spazio in cui cucina a vista e tavolo color noce ci stanno al millimetro, una piccola area per tappeto e divano a due posti in cui il mio amore per il Natale è riuscito ad incastrare un albero poco più alto di me, un bagno che mi ha costretta per i primi sei mesi ad urtare sistematicamente il ginocchio contro il lavandino uscendo dal box doccia e una camera da letto che ci ha consentito due piazze singole e due armadi, ma ha sacrificato l'idea di una seconda scrivania.

Eppure, credo di non essermi mai sentita a casa in nessun altro posto come succede quando sono qui. Neppure nell'enorme villa dei miei, affacciata nientemeno che sul lago di Como. Il panorama mi manca, questo lo ammetto- l'aria densa di Milano non può molto contro l'ossigeno puro che si respira tra i monti-, ma, a parte quello, non credo di sentire la mancanza di molto altro, da quando me ne sono andata.

Di certo non sento la mancanza della voce di mia madre che mi gracchierebbe nell'orecchio quanto io sia poco femminile, mentre me sto spaparanzata a pancia in giù su un tappeto nemmeno tanto nuovo, con addosso un maglione rosso di lana intrecciato pagato meno del suo elastico dei capelli, un paio di pantaloni di felpa color panna e i piedi rifugiati in dei calzini antiscivolo col nasino da renna decisamente poco di classe.

Alzo lo sguardo verso i pallini colorati che brillano sul vetro della finestra, riflettendo le luci natalizie. Alle volte, l'ondata di emozione che mi riempie la gola per la fortuna che sento di avere nel poter vivere questa banale quotidianità mi fa sentire stupida.

Forse il problema non è la scrittura o quello che leggo, forse il problema sono io. Magari ho una specie di difetto di fabbrica, o qualcosa del genere.

Quando si inciampa in una storia d'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora